(foto LaPresse)

Cig trappola d'acciaio

Andrea Garnero

L’estensione di cassa integrazione e divieto di licenziamento incastra i lavoratori e pietrifica l’economia

L’Italia è passata alla fase 3 ma nonostante svariate taskforce e una settimana di Stati generali, il dibattito sulle politiche del lavoro è rimasto alla fase 1. Quando è scoppiata la bomba Covid-19, cassa integrazione (Cig) per tutti e divieto di licenziamenti sono state le misure più immediate per far fronte a una situazione inedita, con migliaia di imprese chiuse per decreto. Con la riapertura e il passaggio alle fasi 2 e 3 sarebbe stato naturale che queste misure evolvessero. Invece, a leggere i giornali, sembra che l’unica prospettiva sia continuare ad estenderle sine die. Questo almeno pare il programma di parte consistente della politica, dei sindacati ma anche di Confindustria che vorrebbe una Cig anti-covid di due anni. Con il nobilissimo obiettivo di aiutare i lavoratori, tuttavia, si rischia una pietrificazione dell’economia italiana come ha scritto domenica Ferdinando Giugliano su Repubblica.

 

Alla base c’è un problema di fondo: aver promesso che nessuno avrebbe perso il posto di lavoro. Era una promessa purtroppo intenibile. Tra febbraio e aprile si sono persi 400 mila posti di lavoro nonostante divieto di licenziamento e Cig per tutti. Perché? Perché il mercato del lavoro è una macchina del moto perpetuo. Ogni giorno migliaia di persone trovano un lavoro, lo cambiano, lo perdono o si dimettono. La Cig e il divieto dei licenziamenti hanno chiuso (o socchiuso, perché comunque anche il numero di occupati a tempo indeterminato è sceso) la porta di uscita per chi ha un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato ma nulla hanno potuto fare per gli autonomi, per i contratti temporanei che arrivavano a scadenza e per chi contava di trovare un lavoro stagionale con l’inizio della stagione turistica. Il divieto di licenziamento ha, quindi, contribuito a scaricare l’aggiustamento sulle fasce di lavoratori più vulnerabili. 

 

 

Quello che lo stato avrebbe dovuto promettere è che nessuno sarebbe stato lasciato solo e che tutti coloro che avessero perso un lavoro avrebbero avuto accesso a un sostegno economico e soprattutto a un aiuto a ritrovare lavoro. E che le imprese sarebbero state aiutate, o per lo meno non ostacolate, a creare nuovo lavoro.

 

Anche se può sembrare controintuitivo, Cig e divieto di licenziamento alla lunga rischiano di diventare una trappola per il lavoratore stesso. In cassa si guadagna meno e c’è il rischio di rimanere bloccati in un’impresa senza futuro, senza possibilità di prendere un altro lavoro a latere e diventando sempre meno “appetibili” dopo essere stati fermi per mesi o anni senza alcun tipo di formazione. Con il divieto di licenziamento, c’è il rischio, assurdo ma reale, che un lavoratore si trovi senza stipendio (se l’impresa non ha i soldi per pagare) ma anche senza Naspi, il sussidio di disoccupazione a cui si ha diritto in seguito a un licenziamento.

 

Se fossimo un paese nordico, finito il periodo di restrizioni imposte per legge, si lascerebbero fallire le imprese che non ce la fanno (i licenziamenti nel frattempo non sarebbero mai stati vietati) e si procederebbe al ricollocamento del lavoratore. Non solo non siamo un paese nordico, ma nemmeno si vede all’orizzonte quel salto di qualità delle politiche attive e passive che sarebbe necessario per lasciar andare la zattera che, seppur in maniera imperfetta, rappresenta la Cig. I costi per i lavoratori e il paese, in termini di spesa pubblica ma anche di mancata crescita, potrebbero però diventare insostenibili.

 

È quindi necessario sfruttare le prossime settimane per disegnare e condividere con le parti sociali le nuove misure da mettere in campo a partire da metà agosto quando scadrà il divieto di licenziamento. Per evitare un picco di licenziamenti, la Cig deve essere rinnovata ma in forma nuova. Alle imprese deve essere chiesta una partecipazione ai costi (come prima del Covid-19) per assicurarsi che la richiesta si basi su un piano concreto di medio periodo. Come in Francia, il costo per le imprese potrebbe essere differenziato tra settori per aiutare quelli ancora sottoposti a significative limitazioni . Inoltre, in una fase transitoria, la Cig potrebbe trasformarsi, almeno in parte, in un abbassamento del cuneo fiscale, come previsto in Spagna.

 

Il periodo di cassa integrazione, poi, deve essere accompagnato da un piano di formazione generale (ad esempio minime competenze informatiche) e specifica (a seconda del settore e della mansione) per i lavoratori ma anche per i datori di lavoro. Le resistenze a innovare il modo in cui si lavora, anche tra gli imprenditori, sono sempre forti. Il diritto soggettivo alla formazione dovrebbe, quindi, essere una delle rivendicazioni chiave del rinnovo dei contratti collettivi. Finora, nei settori in cui è stato introdotto, è rimasto essenzialmente sulla carta, ma i fondi bilaterali possono essere mobilitati per aiutare le imprese a sopportarne i costi.

 

Infine, è necessario abbattere quegli ostacoli che impediscono a chi è in cassa integrazione di fare un altro lavoro regolare e, sfruttando i mesi aggiuntivi di Cig, mettere in piedi delle politiche attive degne di questo nome per prendere in carico chi cerca un lavoro, capirne i bisogni e le aspirazioni, aiutarlo a trovare il percorso di ricollocazione adeguato, richiamarlo quando la motivazione dovesse venire a mancare.

 

Programma vasto e non del tutto originale, mi rendo conto. Ma l’unica alternativa è sprecare mesi e anni di cassa integrazione per poi ritrovarci con i soldi di Sure, Recovery fund e forse anche Mes finiti e un’economia pietrificata. 

 

@AGarnero