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Quanto ci sarebbe costato non fare il lockdown

Luigi Guiso e Daniele Terlizzese*

Lasciar diffondere la pandemia sarebbe stato un disastro anche per l'economia. Oltre al costo umano, anche quello economico sarebbe stato maggiore di quello dovuto alle misure prese dal governo

Il costo economico delle misure di distanziamento sociale e fermo produttivo (lockdown), attuate ormai in quasi tutto il mondo, è ingente. Lo percepiamo - e così è stato interpretato da diversi commentatori -  come il prezzo da pagare per ridurre la perdita di vite umane. Nel calibrare estensione e durata di quelle misure i vari governi sono chiamati a un doloroso bilanciamento tra il costo di una recessione più pronunciata e il sollievo di minori morti. A far da sfondo a questa decisione c’è la convinzione che, lasciata libera di agire indisturbata, la pandemia produrrebbe sì un numero esorbitante di morti (i nostri colleghi Pinguillem e  Liyan hanno stimato questo numero in 800 mila per l’Italia; un recente studio dell’Imperial College di Londra stima 645 mila morti e 52 milioni di contagiati, che salgono rispettivamente a 40 milioni e 7 miliardi per il mondo intero), ma determinerebbe una perdita di produzione e reddito molto inferiore a quella risultante dal lockdown.

 

Pensiamo che questa convinzione sia errata: siamo convinti che con molte centinaia di migliaia di vittime, oltre all’enorme costo umano, anche quello economico sarebbe verosimilmente maggiore di quello, pur grande, delle misure che il nostro e molti altri governi stanno prendendo.

 

Proviamo a immaginare: che succederebbe se si lasciasse diffondere la pandemia? All’aumentare delle vittime aumenterebbe la percezione del rischio associato all’andare a lavorare, e molti comincerebbero a restare a casa per paura; anche coloro che continuassero a recarsi al lavoro sarebbero oberati psicologicamente dal lutto per parenti, amici, colleghi, e questo non potrebbe che riflettersi sulla loro produttività, che crollerebbe. Con lavoratori che scelgono di restare a casa e minore produttività di quelli che lavorano, comincerebbero a scarseggiare i beni di prima necessità. Il loro prezzo salirebbe, e dovrebbe salire al punto da compensare gli agricoltori, e gli altri lavoratori nella filiera produttiva dei beni necessari, per il rischio di ammalarsi continuando a produrre. L’aumento di questi prezzi, forse esorbitante, impoverirebbe tutti coloro che li devono comprare. Ci si potrebbe aspettare che ciò inneschi un aggiustamento nell’offerta di lavoro negli altri settori: i lavoratori impoveriti potrebbero essere indotti a lavorare di più, per procurarsi il maggiore reddito necessario agli acquisti divenuti più cari. Ma è presumibile che la situazione di emergenza concentrerebbe la domanda su beni e servizi di prima necessità, prosciugandola per quelli non necessari. Le imprese che producono beni non-vitali fallirebbero, o comunque ridurrebbero fortemente la loro domanda di lavoro, rendendo difficile l’assorbimento della potenziale maggiore offerta. La tendenza a non recarsi al lavoro sarebbe paradossalmente rafforzata dall’attesa temporaneità della situazione pandemica: si darebbe fondo ai risparmi, pur di evitare il rischio legato alla mobilità e alle interazioni sul posto di lavoro. In queste condizioni, anche il sistema del credito avrebbe maggiori difficoltà a incanalare le risorse verso chi ne ha più necessità. In sostanza, si verificherebbe una sorta di lockdown autoimposto, ma verosimilmente in forme disordinate e con l’aggravante di forti disparità nelle condizioni individuali: i più ricchi potrebbero permettersi per più tempo di restare lontani dai luoghi di contagio, e quindi anche la loro mortalità sarebbe inferiore, si creerebbero modifiche rilevanti nei prezzi relativi e fallimenti concentrati in alcuni settori.

 

A questo va aggiunto un possibile, esiziale circolo vizioso: il rischio enorme che medici e personale sanitario dovrebbero sopportare per assistere un numero elevatissimo di infetti potrebbe finire per intaccare quella dedizione e senso del dovere che finora hanno fatto da argine all’espandersi del contagio; ne abbiamo avuto un primo segnale con il numero anomalo di assenze per malattia tra i dipendenti dell’ospedale di Crotone, denunciato il 23 marzo scorso. La carenza di assistenza renderebbe il contagio ancora più rischioso, amplificando l’incentivo a proteggersi e a fuggire dal lavoro, e quindi la crescita dei prezzi dei beni di prima necessità e il crollo della produzione negli altri settori, nel ciclo prima descritto.

 

Non siamo in grado di quantificare l’impatto economico di questi sviluppi, troppi sono i fattori per i quali mancano i dati che consentirebbero di prevederne gli effetti. Pensiamo però che la logica degli eventi descritta sia sufficientemente plausibile da poter ipotizzare che essi determinerebbero una recessione più profonda e più dirompente – perché più ingiustamente distribuita – di quella che ci lascerà il lockdown.

 

Passata l’epidemia l’economia si riprenderebbe, ma ci sarebbero strascichi duraturi. Con una frazione maggiore della forza lavoro mietuta dall’epidemia, la capacità produttiva del paese sarebbe indebolita per decenni. Anche la perdita dei più anziani, fuori dalle forze di lavoro, pur senza effetti diretti sulla produzione di mercato avrebbe un impatto notevole sulla disponibilità di servizi domestici, non contabilizzati nel PIL ma non per questo meno utili alla società.       

 

Naturalmente questo non implica che il costo economico del lockdown sia trascurabile. Si tratta di un costo molto rilevante e, per quanto incerto nell’entità, pressoché certo nel suo verificarsi. Per questo, come abbiamo già scritto in queste colonne nei giorni scorsi, è utile e urgente mettere in campo tutte le iniziative che lo possano mitigare nella dimensione, spalmare nel tempo, distribuire tra la popolazione nel modo più equo possibile. Ma lo scenario distopico che abbiamo descritto serve a evitare che l’utilità e l’urgenza di queste iniziative siano appannate dall’illusoria speranza di poter minimizzare il costo economico del lockdown con un approccio non interventista, sia pure a un prezzo rilevante in termini di vite umane.

  

*Luigi Guiso, Axa professor of Household Finance Einaudi Institute for Economics and Finance

Daniele Terlizzese, Direttore dell’Einaudi Institute for Economics and Finance

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