Luigi Di Maio e Matteo Salvini a fianco del premier Giuseppe Conte (Foto LaPresse)

Chi ha ucciso il riformismo

Elsa Fornero

La rimozione del passato coincide con la rimozione del futuro. Idee per una nuova stagione

Per decenni tutte le principali istituzioni internazionali hanno invocato, per il nostro paese, riforme, riforme e ancora riforme. Limitandosi al campo dell’economia, le riforme dovrebbero migliorare il mercato del lavoro, il sistema di welfare, il funzionamento della burocrazia e della giustizia: favorire, in altre parole, l’efficienza della Pubblica amministrazione, e quindi creare benefici visibili diretti ai singoli cittadini; incoraggiare gli investimenti e in tal modo consentire una crescita economica il più possibile regolare e sostenibile. In un mondo globalizzato le riforme servono anche, e forse soprattutto, ad accrescere la competitività delle imprese e il corretto funzionamento dei mercati, a livello sia nazionale sia internazionale. In questa visione “tecnica”, le riforme si giustificano con l’esigenza di aiutare l’economia e la società a non essere, per quanto possibile, succubi dei cambiamenti strutturali, soprattutto demografici (invecchiamento e immigrazione), tecnologici (digitalizzazione e robotizzazione) e sociali. Quest’ultima dimensione implica la lotta alle violenze, alle persecuzioni, alla povertà e alla crescente discriminazione che rende i redditi e le prospettive di vita sempre più diseguali e il che significa, soprattutto per l’Italia, reagire al rischio di perdita di posizioni nel confronto internazionale.

 

Questa necessità di rinnovamento di vari ambiti dell’economia nazionale è stata recepita da una parte soltanto della popolazione (chiamiamola élite o establishment, classe dirigente, tecnocrazia o come volete) ma non ha convinto la maggioranza dei cittadini che ne ha soprattutto avvertito, e forse ingigantito, gli effetti in termini di incertezza, insicurezza e persino di minaccia, al tempo stesso valutando come del tutto inadeguate e inique le risposte dei governi e delle stesse istituzioni internazionali. In questo divario di visioni, si è inserita la politica populista che ha intuito i vantaggi che si potevano trarre politicamente dallo scontento popolare. Hanno cavalcato questo scontento, spesso soffiando sul fuoco della paura e del risentimento. In un certo senso, questo è più che naturale; meno naturale risulta essere l’insensibilità e l’incapacità di risposta del mondo politico tradizionale.

 

I populisti hanno radicalmente cambiato non soltanto stile e linguaggio ma anche metodo e stile di governo, non disdegnando la volgarità del linguaggio, la caccia al “capro espiatorio” (di volta in volta: l’immigrato, l’Europa, la cancelliera tedesca, il governo tecnico e suoi singoli ministri, e così via) e sempre lasciando intendere che era in realtà possibile, anzi a portata di mano, il ritorno al “buon mondo antico”. Vincoli finanziari, impegni sottoscritti in ambito internazionale e lo stesso senso della misura sono stati variamente “superati” (impossibile “cancellarli”) in una logica che pone il consenso popolare di breve termine come unico criterio dell’azione politica. E la parola riforma è così diventata una brutta parola, la parola degli “altri”, sinonimo di austerità, e da sostituirsi con il più generico termine “cambiamento”, da intendersi in senso sempre positivo, e quasi solo come cancellazione delle riforme fatte da “quelli di prima”.

  

 

Per un riformista, comprendere le ragioni della profonda contraddizione tra la necessità di attuare riforme e il rifiuto da parte del “popolo” e dei populisti è non soltanto necessario ma anche urgente. La questione coinvolge direttamente la capacità di dialogo e di persuasione rispetto alle buone motivazioni che dovrebbero sorreggere le riforme, ammesso che ce ne siano, come i riformisti ritengono. Se non si è in grado di convincere la maggioranza dei cittadini che le riforme sono fatte per il bene della società e non contro di essa, in particolare per mantenere i privilegi di pochi o avvantaggiare gli “stranieri”, allora la partita è persa e avranno gioco facile, i populisti/sovranisti, nel perseguire le loro marce indietro.

 

Quest’opera di persuasione non può che poggiare su un’interpretazione corretta del concetto di riforme e sul rifiuto delle illusioni – o, peggio, spesso delle menzogne – per acquisire consenso politico. E allora bisogna cominciare col dire che le riforme non sono soltanto atti normativi che producono risultati non appena licenziati dal Parlamento bensì processi volti a modificare, in tempi medio-lunghi, comportamenti sociali (di lavoratori, consumatori, imprese, burocrazia, istituzioni), per adeguarli, possibilmente in modo costruttivo, a quelle trasformazioni strutturali che, come si è detto sopra, è bene cercare di gestire piuttosto che ignorare. In questo senso, in una democrazia liberale, le riforme, devono “vivere nella società”, essere recepite e sostenute dalla maggioranza dei cittadini.

 

Il secondo elemento di chiarimento è che le riforme non sono mai a costo zero, nonostante talvolta lo si sostenga. Proprio perché inducono modificazioni nei comportamenti, esse comportano sempre dei costi che possono generare opposizione, aperta o sotterranea, in chi dovrebbe sostenerne l’onere. Un esempio può essere la riforma della burocrazia, intesa come cambiamento organizzativo per aumentarne l’efficienza, ridurne le complicazioni e la lentezza. Dietro l’inefficienza peraltro vi sono persone alle quali si chiede di lavorare magari di più – e certamente meglio – di riqualificarsi, di cambiare attività ed è comprensibile che le persone coinvolte (o una loro parte) cerchino di opporvisi, con proteste o tentativi di boicottaggio.

 

Lo stesso vale per la riforma del mercato del lavoro, dove si vorrebbero raggiungere gli obiettivi di maggiore inclusività, dinamismo, flessibilità e giusto grado di protezione dei lavoratori. Le riforme si propongono di trovare il difficile equilibrio nello scambio (il cosiddetto trade off) tra ciò che è gradito all’impresa e ciò che è gradito al lavoratore. E così per la riforma delle pensioni con la quale si cerca di bilanciare i sacrifici chiesti ai lavoratori di oggi con una maggiore sostenibilità dell’intero sistema, a tutela dei giovani, dei lavoratori di domani. O ancora per le liberalizzazioni, le privatizzazioni e così via.

 

Proprio la presenza di costi immediati permette di interpretare le riforme come investimenti sociali: si sostengono sacrifici oggi in vista di benefici futuri, come per qualunque operazione di investimento. Se le riforme sono invece viste soltanto come rinuncia, sacrificio austerità o simili è ben difficile che i cittadini le accettino. E troveranno sempre politici disposti a sostenere le loro proteste e a prometterne la “cancellazione”. Precisamente perché implicano costi, è essenziale che i cittadini vi percepiscano un senso di equità, sia entro sia tra le generazioni, una riduzione di quelli che appaiono evidenti e inaccettabili privilegi. Purtroppo, l’esperienza della Grande recessione, accompagnata da un forte aumento delle diseguaglianze, ci ha insegnato che la resistenza alla riduzione dei privilegi non diminuisce neppure nei momenti di crisi del paese, che dovrebbero invece favorire la solidarietà. L’equità entro le generazioni è quella più facile da comprendere (anche se l’equità di genere da noi è ancora poco sentita e ancor meno praticata). Quella tra generazioni è più difficile da comprendere: si rifiuta spesso l’idea che essa possa essere minata dal debito pubblico ancor più quand’esso assume la forma implicita di “debito pensionistico”.

 

Il debito non è sempre un male ma rappresenta un’eredità negativa che ha fortemente condizionato le nostre politiche negli ultimi decenni. Di fronte a un debito che può diventare insostenibile il riformista dovrebbe scegliere la strada della riduzione, più o meno graduale. Il populista fa spallucce e dice che il problema non esiste, che l’unica cosa che conta è l’aumento del pil e dell’occupazione, con l’implicazione neppure troppo sottintesa che la crescita si ottenga soprattutto con la spesa pubblica e non con gli investimenti, in capitale fisico, umano, infrastrutture, innovazione, ricerca.

 

È vero che nessuno è in grado di predire il momento in cui un debito diventa insostenibile, ma l’economia ne chiarisce le circostanze quando ci ricorda come non possa esservi sostenibilità quando il tasso di crescita del pil è sistematicamente inferiore al tasso di interesse; meno che mai quando le entrate fiscali non compensano neppure le spese al netto degli interessi. La riduzione graduale del debito richiede però la crescita dell’economia, dell’occupazione e dei redditi ma una crescita sostenibile si ottiene solo investendo. E le riforme servono precisamente a favorire gli investimenti di un paese. E’ questa visione di più ampio respiro e di più lungo termine che i riformisti dovrebbero credibilmente offrire al paese in luogo dell’irrealizzabile “qui e ora” promesso dai populisti.

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