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Nello sprofondo sud emerge il fallimento del lavoro a 5 stelle

Marco Fortis

Il successo del Jobs Act è nei numeri delle assunzioni a tempo indeterminato. I dati che Di Maio non sa leggere

Con i Navigator ancora in alto mare, con i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese fermi, con la produzione e gli ordinativi dell’industria in calo, il mercato del lavoro in Italia resta completamente paralizzato. Intanto la gestione governativa di diverse crisi aziendali continua ad essere alquanto improvvisata e caotica con il rischio, come conseguenza, che a breve termine si materializzino nuove migliaia di disoccupati. Sicché il 2019, l’anno che doveva essere “bellissimo”, sarà purtroppo ricordato come uno dei peggiori dell’Italia degli ultimi decenni, non solo per le tensioni sul debito pubblico e per la stagnazione economica ma anche e soprattutto per la crisi del lavoro.

 

La disoccupazione nel Mezzogiorno ha ripreso a crescere, ed è ancora sotto ai livelli precrisi. Il decreto dignità non ha incentivato il tempo indeterminato e il rdc ha ingessato il mercato. Un quadro diametralmente opposto a quello del nord-centro Italia dove gli occupati totali sono costantemente aumentati

La realtà è che ci sono solo due modi per fare aumentare in modo consistente l’occupazione (escludendo l’ipotesi anacronistica di una assunzione in massa di dipendenti pubblici). O attraverso la crescita dell’economia o con provvedimenti choc di incentivazione delle assunzioni nel settore privato oppure con una combinazione di entrambi questi requisiti. E’ esattamente ciò che è accaduto nel nostro paese nel periodo intercorso tra il secondo trimestre 2014 e il secondo trimestre 2018, in particolare nel triennio 2015-’17, quando l’economia aveva ripreso a crescere a buon ritmo, e quando il Jobs Act e le decontribuzioni avevano notevolmente spinto le assunzioni a tempo indeterminato, specialmente nel biennio 2015-16.

 

Infatti, gli occupati dipendenti a tempo indeterminato, misurati in termini di livello, crebbero nella misura record di ben 415mila unità dal primo trimestre 2015 al quarto trimestre 2016 (secondo i dati trimestrali destagionalizzati Istat). In seguito, sono aumentati ancora di 41mila unità fino a toccare un massimo di 14 milioni e 964mila nel terzo trimestre 2017, prima di ripiegare e poi flettere più sensibilmente con la frenata del ciclo economico. Soltanto nel primo trimestre 2019, secondo l’Istat, gli occupati permanenti hanno ripreso a crescere un po’ ma si è trattato soltanto di un piccolo rimbalzo, per cui essi rimangono ancora 30mila in meno rispetto al livello del secondo trimestre 2018.

 

 

Negli ultimi giorni il vicepremier e ministro per lo Sviluppo economico Luigi Di Maio ha dichiarato che il Jobs Act avrebbe fatto letteralmente precipitare le assunzioni a tempo indeterminato dal 2015 al 2017, nella misura di quasi un milione di nuovi assunti. Di Maio presumibilmente si riferiva ai dati Inps dell’Osservatorio sul precariato. I casi evidentemente sono due. O Di Maio, a dispetto delle statistiche ufficiali sul livello assoluto degli occupati permanenti fornito dall’Istat, ha inteso volutamente trarre in inganno i cittadini sul reale significato dei numeri Inps, lasciando intendere che il Jobs Act e le decontribuzioni sono state dei fallimenti. Oppure semplicemente Di Maio non ha capito le statistiche e la differenza fondamentale esistente tra assunzioni e livello degli occupati, che sono due cose completamente diverse tra loro. Infatti, le assunzioni sono un flusso in entrata (da cui andrebbero peraltro sottratte anche le cessazioni come flusso in uscita) mentre il livello degli occupati è uno stock: ed è il parametro che fa testo. Sicché, è assolutamente vero che il numero delle assunzioni a tempo indeterminato ha toccato un massimo storico nel 2015 e poi è diminuito. Ma ciò è esattamente la prova del successo del Jobs Act e delle decontribuzioni, non del loro fallimento. Mai, infatti, negli ultimi anni le assunzioni a tempo indeterminato erano cresciute tanto come nel 2015. Inoltre, anche se il ritmo delle assunzioni in seguito è calato, il livello degli occupati a tempo indeterminato misurato dalle indagini sulle forze di lavoro dell’Istat ha continuato a crescere, perlomeno fino al 2017-’18, cioè quando la crescita economica ha cominciato ad affievolirsi. Poi è anche vero che, contemporaneamente, è aumentato il numero degli occupati dipendenti a termine ma ciò è accaduto semplicemente perché l’economia e il mercato del lavoro richiedevano anche – e in misura crescente – questo tipo di mansioni, soprattutto nei comparti che, assieme alla manifattura, hanno dato il maggior sviluppo al pil nel quadriennio 2015-2018, cioè il commercio e il turismo.

 

Intanto la crisi occupazionale nel Mezzogiorno si fa sempre più acuta ed è questo il vero problema di cui non si parla affatto. Basti pensare che tra il secondo trimestre 2008 e il secondo trimestre 2014 gli occupati totali nel sud e nelle isole erano diminuiti di ben 645mila unità. In seguito, vi è stato un ininterrotto recupero di 367mila occupati fino al secondo trimestre 2018. Da quel momento, però, la situazione ha ricominciato a precipitare e in soli tre trimestri sono stati nuovamente persi 108mila occupati. Complessivamente, dunque, il Mezzogiorno ha ancora oggi 386mila occupati in meno rispetto ai massimi precrisi. Un quadro diametralmente opposto a quello del nord-centro Italia dove gli occupati totali sono costantemente aumentati dal quarto trimestre 2013 sino ad oggi e sono ormai superiori di 446mila unità rispetto ai livelli precrisi.

 

In questi crudi numeri c’è il sostanziale fallimento delle due misure bandiera grilline: il decreto dignità, che ha inciso solo in misura flebile sul numero degli occupati a tempo indeterminato “ingessando” viceversa il resto del mercato del lavoro, e il reddito di cittadinanza che non ha avuto il successo sperato, specie al sud, e non sta dando alcun apporto concreto alla creazione di nuovi posti di lavoro, mentre è evidente che la mancata crescita economica è il vero tallone d’Achille del nostro Meridione, a cui serve sviluppo e non assistenzialismo.

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