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Così La Perla prepara tagli a Bologna e un trasloco a Londra

Fabiana Giacomotti

Il marchio di lingerie del fondo olandese Sapinda riorganizza la struttura italiana cercando di non disturbare le europee

Roma. Avevano ragione i sindacati a preoccuparsi quando, un anno fa, il gruppo La Perla venne venduto da Silvio Scaglia al fondo olandese Sapinda del discusso finanziere Lars Windhorst. Arrivò una prima iniezione di capitali, i sindacati di categoria ottennero garanzie sulla tutela dei lavoratori del centro produttivo, accettarono l’idea che il numero dei negozi monomarca (oltre 150 nel mondo) sarebbe stato ridimensionato e si quietarono. In realtà, secondo il piano strategico-industriale di cui il Foglio è venuto a conoscenza, Sapinda si prepara a tagliare non modellisti, sarti e corsettaie del marchio di intimo e lingerie, ma la quasi totalità dei dipendenti amministrativi, commerciali, marketing del gruppo: oltre 80 persone, a loro volta basati a Bologna e, in piccola parte, a Milano.

    

Il ceo Pascal Perrier, ex Burberry, sta cercando abboccamenti col ministero dello Sviluppo e supporti mediatico-lobbisti per evitare che l’impatto della misura si riveli un boomerang in questo momento molto rilevante per la produzione ma, soprattutto, per il governo italiano di cui vorrebbe, ma non può proprio, fare a meno. Il manager sta cercando di capire se, a poche settimane dalle europee, non sarebbe più opportuno attendere per far calare la mannaia su una percentuale così rilevante dei dipendenti del gruppo basati a Bologna, circa un quinto del totale e su una rete complessiva mondiale di circa 1.500 persone. L’obiettivo di Perrier sarebbe di centralizzare non solo gli headquarter, dove già si trovano da anni con la sigla La Perla Global management Ltd, ma tutta la gestione del marchio a Londra, lasciando a Bologna il solo sito produttivo: una mossa difficile da capire quando, Brexit e inevitabili difficoltà di trasmissione delle informazioni a parte, è noto che i manager migliori della moda vengano cercati in Italia (Marco Bizzarri di Gucci, Pietro Beccari di Dior e Antonio Belloni, ex P&G, direttore generale del gruppo LVMH) e che a Londra non vi sia alcuna tradizione nella comprensione dei delicati meccanismi che regolano la produzione, il merchandising, il marketing della moda. Ma Sapinda ha, come ogni altro fondo, un piano di rientro rapido e strategie conseguenti per il prodotto: trasformarlo in un Victoria’s Secret di buona qualità, cioè massificarne almeno l’appeal. Una strategia non sorprendente nell’ottica di un fondo, ma molto sorprendente in quella della moda e del business di settore.

     

Per La Perla si preparano dunque mesi turbolenti. E non sono i primi. Il declino del marchio è iniziato quindici anni fa quando Alberto Masotti, figlio della fondatrice Ada che nel 1954 aveva inaugurato il suo marchio di corsetteria, conservando i primi documenti in uno scrigno che veniva mostrato ai visitatori più vicini alla storia di famiglia, decise di diversificare le linee: oltre a lingerie, intimo, mare, ne venne aperta una di abbigliamento, la cui direzione creativa, ufficialmente attribuita alla figlia di Alberto, Anna, veniva in realtà sviluppata da una serie di giovani designer in veste di consulenti. L’allontanamento dal core business si rivelò fatale anche in tempi ricchi come quelli: dopo pochi anni, a fronte dei debiti accumulati, Masotti si ritrovò costretto a cedere progressivamente le sue quote e, via via, molte altre proprietà, fra cui l’importante showroom milanese di via Tortona. Nel 2013, l’ex Fastweb Silvio Scaglia aveva acquisito il marchio, già danneggiato, da un fondo americano e ancora nel 2017 rassicurava gli investitori sulla sua tenuta: “Vendere sarebbe un grave errore, un po’ come lo sarebbe stato cedere Fastweb all’indomani della fine della bolla delle dot com” disse al Corriere della Sera. Ma la moda non è una dot com, né si presta granché alle speculazioni: fa status, fa chic, ma per gestirla bisogna avere visione, capacità di gestione, molti soldi e tempi lunghi. Così anche Scaglia, dopo una lunga trattativa coi cinesi di Fosun, ha gettato la spugna, subendo un salasso: 350 milioni investiti più 69 depositati presso il Tribunale di Bologna per rimborsare i creditori.