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Per dare vita a un polo del lusso in Italia non basta affidarsi al nostro genio

Fabiana Giacomotti

Senza il supporto della finanza sempre più aziende di moda italiane finiranno all’estero. Parla Maurizio Tamagnini, ad del fondo FSI

Non avevamo bisogno che il quotidiano francese Les Echos ci venisse a raccontare che noi italiani perdiamo i pezzi più pregiati della nostra manifattura di lusso perché incapaci di fare sistema e di assicurare un vero ricambio generazionale alle nostre aziende, la maggior parte delle quali ancora di prima generazione. Non ne sentivamo la necessità perché abbiamo fatto quest’analisi da soli e in totale autocoscienza decine di volte, ravvisando le origini del nostro esasperato individualismo ancora nella politica dei Medici che, se non sbagliamo, insegnarono ai francesi l’esistenza di uno strumento atto a portare il cibo alla bocca senza ungersi le mani denominato forchetta. In secondo luogo la pressappochistica analisi dell’altro giorno ci pareva parziale e abbondantemente di parte perché nell’ultimo ventennio tanto abbiamo venduto quanto almeno in parte abbiamo conquistato – pensate a quel gioiello che è diventato Moncler nelle mani di Remo Ruffini – e perché se dal 1999 a oggi abbiamo ceduto nomi come Fendi, Pucci, Gucci, Brioni, Valentino, Loro Piana, Bvlgari, Krizia, La Perla e, pochi giorni fa, Versace che però già era abbondantemente partecipata dal fondo Blackstone (d’accordo, fa un po’ impressione leggere la lista così, tutta di fila, soprattutto da quando Kpmg ha rivelato che sulle 327 acquisizioni portate a termine fra gennaio 2017 e marzo 2018 a livello mondiale, il 21 per cento riguarda imprese italiane) non dobbiamo dimenticare che in mani italiane sono e sembrano restare i principali gruppi della moda nazionale: Giorgio Armani, Prada, Zegna, Dolce&Gabbana, Brunello Cucinelli, Etro, Missoni, Tod’s, Ferragamo – quest’ultimo sperabilmente visto che vanno moltiplicandosi le voci di una possibile cessione per soddisfare le esigenze di una famiglia ormai fin troppo ampia e composita per poter sviluppare una politica di espansione coesa e senza generare poderosi attriti interni.

 

Dietro alla storia di queste aziende, trovate spesso il nome del manager Michele Norsa e da qualche tempo, talvolta intrecciato al suo, quello di Maurizio Tamagnini, amministratore delegato di FSI, il “fondo dei fondi sovrani” lanciato nel 2017 con un efficace slogan che corrisponde anche alla realtà visto che ne fanno parte il veicolo Kia del Kuwait, Temasek di Singapore, i maggiori investitori istituzionali di lungo termine italiani ed europei, oltre ai family office di grandi gruppi industriali e a importanti realtà assicurative e bancarie internazionali. Lo scorso giugno, FSI, con la sua disponibilità di quasi 1,5 miliardi di euro diretti, che potrebbero anche raddoppiare con i co-investimenti indiretti, annunciò di essere entrato con il 41 per cento e un apporto di capitali per circa 70 milioni nell’azionariato di Missoni, che senza energie finanziarie fresche rischiava di doversi rivolgere all’estero per potersi sviluppare come merita o, appunto, di cedere le armi. E di questa, che insieme con il bad timing, cioè le cattive tempistiche di apertura al mercato (“rischiano di arrivarci quando è ormai è troppo tardi, senza considerarlo un passaggio fondamentale dello sviluppo organico della loro azienda”), è la ragione della debolezza non certo strutturale, ma proattiva, dell’industria italiana del lusso, parliamo oggi con Tamagnini in una delle sue rarissime interviste. Spazzata subito l’impressione che manchi qualcosa ai fondamentali della nostra industria (“la filiera italiana è di quasi quattro volte superiore in termini dimensionali e di assoluta eccellenza rispetto a quella francese, che molto spesso e non a caso se ne avvale, venendo in Italia a produrre”), Tamagnini tiene a ricordare che la dimensione, la bassa predisposizione a inserire manager esterni di valore e la scarsa capacità di “incrociare le competenze creative o visionarie dei fondatori con il supporto della finanza” sono le ragioni che portano un’azienda a vendere al migliore offerente del momento. Non di meno, anche la scelta di esagerare con la politica del leverage quasi mai ha portato a buoni risultati. “Il nostro fondo non premia la leva perché il debito non si coniuga bene con i tempi e i modi di questo settore” dice Tamagnini, e vorremmo applaudirlo perché nessun operatore finanziario, tantomeno del suo calibro, ha mai avuto il coraggio di dirlo.

 

Ne abbiamo scritto molte volte, anche sul Foglio: la tradizionale scelta dell’indebitamento, e, in parallelo, della massificazione del prodotto, furono alla base del fallimento di tutti i tentativi di dar vita in Italia a un polo nazionale del lusso, da Fin.Part in poi. Se, come riteniamo da anni, una migliore politica istituzionale, una maggiore valorizzazione del sentiment nei confronti del settore della moda e del lusso con i suoi 620 mila addetti aiuterebbe a elevare la considerazione nei suoi confronti non di meno non ci sono dubbi che, come dice Tamagnini, “gli industriali italiani non possano attendere l’ineluttabile, cioè la vendita, perché privi delle risorse necessarie per espandersi all’estero e in particolare in Asia, ormai un approdo imprescindibile ma particolarmente costoso, e di sostenere lo sviluppo con i necessari investimenti pubblicitari e in ricerca. Dobbiamo perseguire la sostenibilità”, aggiunge, riferendosi naturalmente e in primo luogo a quella finanziaria, senza la quale la crescita del marchio e i risultati economici sono difficili da conseguire. La moda, aggiunge, “richiede tempi lunghi, un flusso di cassa controllato e la giusta tranquillità anche per il fondatore di lavorare alla crescita senza aggiungere ulteriori ansie a quelle già fisiologiche del settore”.

 

Per questo Tamagnini, che ritiene il FSI, “un investitore paziente”, preferisce lavorare con aziende disposte a farsi affiancare da manager con competenze gestionali e commerciali (“pensiamo a che cosa ha fatto Toni Belloni in Lvmh”, dice, evocando la figura del direttore generale del gruppo di Bernard Arnault, ex presidente di Procter&Gamble per l’Europa), piuttosto che lavorare sul debito: “Il leverage”, sottolinea, “spesso è un disincentivo anche per gli stessi proprietari delle aziende. Missoni, il cui indebitamento era praticamente pari a zero, rappresentava dunque un caso perfetto, ideale. Lavoriamo al suo ingresso in Borsa nei prossimi cinque anni”. Oltre a Missoni, da qualche tempo FSI è entrato nel capitale della Lumson, un’azienda attiva in un settore parallelo e al servizio di quello della moda, il packaging per la cosmetica e che, dice Tamagnini, aveva già compiuto tutti i passi preventivi per assicurarsi una crescita sostenibile, attraverso la managerialità, la crescita di una seconda generazione di preparazione ed esperienza internazionale, gli investimenti in ricerca e lo sviluppo nei nuovi mercati. “Il segreto del successo dei poli francesi del lusso sta tutto in questo: nella capacità di miscelare una grande idea con una grande gestione, il genio con la finanza, che raramente si trovano nella stessa persona” e che, comunque, pensiamo al caso virtuoso di Giorgio Armani, tali non possono comunque restare in eterno.

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