Un Airbus modello 350-1000 in mostra all'Airshow China 2018 (Foto LaPresse)

Lezioni dalla barcollante Airbus per le alleanze in cielo e in mare

Renzo Rosati

Il gruppo aeronautico europeo non regge la competizione con i rivali americani di Boeing. Il nazionalismo economico non conviene nemmeno con gli aerei 

Roma. Airbus, il gruppo aeronautico europeo che ha per azionisti di controllo i governi francesi e tedesco (11 per cento ciascuno) e spagnolo (4,2 per cento), sta subendo l’ennesima crisi della sua storia, dopo che Emirates ha annunciato la possibile cancellazione di un ordine di 36 aerei A380, modello di punta dell’azienda con sede centrale a Blagnac, vicino a Tolosa, per negoziarne la sostituzione con il più piccolo ed economico A350. Se la compagnia di Dubai, che finora è stato il maggiore e decisivo cliente dell’A380 con 109 apparecchi su 232 in servizio, manterrà il punto, la sorte di questo superjet lanciato nel 2000 e che ha fatto nel 2005 il primo volo, potrebbe essere segnata: già ne vengono prodotti 6-8 l’anno, rispetto ai 15-20 necessari per rientrare dagli investimenti. E il problema ripercuotendosi sui fornitori riguarderebbe anche Leonardo, ex Finmeccanica, che fabbrica il corpo centrale della fusoliera.

 

Come sempre se ne avvantaggerebbe la diretta rivale Boeing, il cui 787 Dreamliner e la versione a raggio ultralungo 777 200LR sono nati tra gli anni ’90 e 2000 in concorrenza con l’A380. Ma a differenza dell’aereo europeo hanno due soli motori, che abbattono i consumi, pur trasportando a seconda delle versioni circa 200 passeggeri in meno. L’A380 è infatti a doppio ponte, come il vecchio Jumbo della Boeing, pesa un terzo in più del concorrente americano e ha minore autonomia. Molto meglio l’A350, sviluppato dopo con meno posti, per il quale Singapore Airlines ha da poco inaugurato il servizio per New York e per Los Angeles, finora le rotte dirette più lunghe del mondo, interamente in classe business e premium. In sostanza Airbus, con l’A380, ha sbagliato strategia, puntando sul lunghissimo raggio diretto per il mercato di massa, due elementi oggi inconciliabili sia per i consumi sia per il boom del traffico turistico dominato dalle low cost.

 

La Boeing invece ha scommesso su un aereo di punta, il B787-777, più duttile, adatto alla clientela business quanto al mass market, in grado di collegare direttamente scali anche distanti; il risultato sono 2.200 apparecchi in servizio di questo modello, dieci volte più del concorrente europeo. La minore flessibilità in un’epoca nella quale a dettare legge sono i compratori e non i venditori si deve indubbiamente all’imprinting statalista di Airbus, dove per la carica di ceo si susseguono e si danno battaglia francesi e tedeschi, sostenuti dai rispettivi governi: il prossimo avvicendamento è già previsto per aprile tra il tedesco Tom Enders e il francese Guillame Faury. L’immediato riflesso sono i risultati economici: nel 2017 Boeing ha fatturato 97 miliardi di dollari (101 già comunicati per il 2018) con 8,2 di utili netti. Airbus ha fatturato 66,8 miliardi di euro con 2,6 di utili. Dunque per questi colossi della produzione di trasporti il nazionalismo non conviene.

 

Se ne erano già accorti nel 2006 gli inglesi di Bae System, secondo gruppo aerospaziale civile e militare del mondo e primo in Europa, che dopo la privatizzazione degli anni ’90 è uscito, nel 2006, dal consorzio Airbus. E questo potrebbe essere di monito anche per l’annosa e ancora irrisolta vicenda Fincantieri-Chantiers de l’Atlantique (ex Stx) nella quale si fronteggiano il nazionalismo francese e il sovranismo italiano. È evidente che il costruttore navale italiano, di proprietà al 71,6 per cento del Tesoro attraverso Fintecna, ha bisogno di un sito produttivo più adeguato alle grandi navi da crociera. Meno logica appare la fusione preventiva, per fare massa rispetto ai francesi, che ogni tanto viene caldeggiata a Palazzo Chigi tra Fincantieri e Leonardo: due debolezze non fanno una forza. Ancora meno vista la dipendenza di entrambe anche dalle commesse militari (che garantiscono una parte del fatturato di Boeing), mentre Francia e Germania sono già avanti nei programmi di difesa comune, e l’Italia gialloverde è isolata pure su questo terreno.

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