Controriforma furbesca

Elsa Fornero

Niente “smantellamento”, ma la solita ricerca del consenso a debito: sulle pensioni il “cambiamento” sa di antico

Per orientarsi nel groviglio del sistema pensionistico occorre partire dalle origini. Con la riforma Dini del 1995, l’Italia ha adottato un sistema previdenziale (detto Nozionale a Contribuzione Definita), basato su tre fondamentali principi.

  

I) Finanziamento: le pensioni di ogni anno sono finanziate dal totale dei contributi versati dai lavoratori nello stesso anno (sistema della ripartizione, che unisce in un unico “contratto” le generazioni giovani e anziane); non ci sono accantonamenti e anzi ciò che ogni anno manca viene finanziato direttamente dallo stato con ricorso alla tassazione generale oppure all’indebitamento.

  

II) Calcolo della pensione: tiene conto di tutti i contributi versati dal lavoratore e della sua età al pensionamento: a parità di contributi, se l’età è più elevata anche la pensione è più elevata (ché minore sarà il periodo di godimento); il metodo ammette perciò, in modo quasi “naturale”, flessibilità nell’età di uscita dal lavoro, entro una fascia ragionevole di età. Inoltre, pur non essendo impiegati in attività finanziarie, i contributi ricevono un rendimento che è dato dalla crescita del pil: si tratta di un motivo in più per desiderare la crescita anziché sognare la decrescita. 

 

III) Solidarietà: poiché il sistema è pubblico, il calcolo matematico che stabilisce l’equivalenza (attuariale, cioè tenuto conto delle probabilità di sopravvivenza) tra contributi versati e prestazioni ricevute deve contemplare eccezioni non per creare privilegi (come avveniva in passato con le pensioni retributive) ma per aiutare le persone meno fortunate. La solidarietà si manifesta con contributi a carico della fiscalità generale per il pensionamento anticipato di lavoratori impegnati in attività usuranti o gravose o per periodi di disoccupazione, congedi parentali, cura di famigliari disabili.

   

Il sistema non è l’ottimo, soprattutto nella declinazione nostrana dei principi, ma è tendenzialmente equilibrato dal punto di vista finanziario, trasparente, privo delle distorsioni del precedente sistema (come la tassazione sul proseguimento dell’attività di lavoro implicita nella pensione di anzianità e il “regalo” dato alle retribuzioni più elevate più elevate, con le pensioni calcolate solo sulla retribuzione degli ultimi anni). La trasparenza e l’uniformità delle regole, con eccezioni motivate da vera solidarietà, avrebbero dovuto favorire una minore interferenza politica nella gestione del sistema, ovviando all’uso (talvolta smaccatamente elettoralistico) che ne era stato fatto nei precedenti decenni.

  

  

La scelta fu coraggiosa nei principi ma timorosa nei fatti: anziché applicare le nuove regole a tutti per le anzianità future, e magari correggere alcune vistose inefficienze/ingiustizie del passato, con la riforma Dini si optò per un’introduzione eccessivamente graduale (addirittura una trentina d’anni) fatta più per sottrarre il nuovo corso alla vista dei cittadini-elettori che non per renderlo trasparente. A posteriori si può dire che fu una delle occasioni mancate del nostro paese. Una transizione così lunga avrebbe infatti potuto essere percorsa, senza scossoni, da un paese in crescita e con le finanze pubbliche sostanzialmente a posto; non certo da un paese in rapido invecchiamento e con profondi problemi strutturali che la crisi finanziaria prima la grande recessione poi resero non più gestibili.

 

La riforma del 2011 che porta il mio nome (caso abbastanza unico di personalizzazione di una legge) è figlia di tre padri: dell’esasperante lunghezza della transizione, per di più segnata da misure di senso opposto (come lo “scalone” Maroni che avrebbe dovuto entrare in vigore nel 2008 ma fu abrogato prima dal governo Prodi); della prospettiva di default del debito pubblico italiano, arrivata al culmine nell’autunno 2011, e dello stallo politico di fronte ad essa.

 

La riforma non era perfetta (né avrebbe potuto esserlo) ma affrontava i problemi di lungo termine del nostro sistema previdenziale in modo coerente con la riforma del 1995, che venne infatti estesa a tutti i lavoratori, per le anzianità future. La riforma avrebbe dovuto essere comunicata in modo corretto, mettendo in evidenza i suoi principali punti strutturali, ossia la riduzione degli oneri caricati sulle spalle delle generazioni giovani e future e la correzione di inaccettabili ingiustizie. E non presentata, come invece è successo, soltanto in termini di austerità fine a se stessa e di blocco all’occupazione dei giovani.

 

Avrebbe dovuto essere monitorata e anche corretta nei suoi errori, senza quel cinico sfruttamento a fini politici che fu invece fatto, in particolare del problema, pur grave, degli “esodati”. Ciò che sarebbe stato normale in un paese meno diviso, fu invece per l’Italia un terreno di cultura del risentimento, del rimpianto per un passato di maggiori sicurezze (per alcuni, non per tutti), di rivendicazione di “diritti acquisiti” come se si trattasse di diritti non contemperabili con la scarsità delle risorse, di ricerca esasperata del “capro espiatorio”. E di semplificazione estrema della soluzione a problemi in realtà molto complessi.

 

Era nell’interesse della politica, che pure approvò la riforma a larga maggioranza, parlarne male quasi subito dopo l’approvazione. E non era nelle possibilità di un ministro tecnico, senza l’appoggio di partiti o di sindacati, far arrivare una lettura con almeno qualche positività.

  

La forza del messaggio “cancelleremo la riforma Fornero” ha così raccolto, negli anni successivi, un forte consenso elettorale, che non si è incrinato nelle successive fasi del più modesto “superamento”, per di più in via temporanea, come “esperimento”.

 

  

In questo quadro, la controriforma affidata a “quota 100” (la somma di 62 anni di età e 38 anni di contributi) rappresenta il ritorno prepotente, ma nello specifico anche assai furbesco, della politica nella determinazione delle regole pensionistiche, celebrato come ripristino della supremazia delle “nobili” scelte politiche rispetto alle “meschine” compatibilità finanziarie (culminata nella festa grillina del disavanzo al 2,4 per cento del Prodotto interno lordo, poi ridotto, nel confronto con l’Europa, al 2,04). Una sorta di vendetta per gli anni della supposta supremazia dell’economia sulla politica, come se l’economia non si preoccupasse del benessere sociale, magari cercando di estendere l’orizzonte al di là delle prossime, tipicamente ravvicinate, scadenze elettorali.

 

Il fatto che, con la riduzione del disavanzo, anche “quota cento” abbia dovuto fare i conti con vincoli finanziari è passato in secondo piano nella narrazione del governo di “una prima picconata, il resto verrà dopo”. Verrà, se nel frattempo non si aggraveranno i problemi della nostra economia: non è difficile vedere quanto poco sia stato stanziato nella legge di bilancio per favorire la crescita e quanto grande sia, per contro, il rischio che si riducano gli investimenti e che aumentino il lavoro nero, l’economia sommersa e le false partite Iva. E soprattutto non si possono trascurare le conseguenze della nuova clausola di salvaguarda relativa aumento dell’Iva, che di fatto sposta (di poco) i problemi nel tempo proprio contando su una crescita (nel frattempo diventata il nuovo “boom digitale” di Di Maio) su cui nessun analista sembra disposto a scommettere.

 

Intanto alcune centinaia di migliaia di lavoratori potranno andare prima in pensione e questo è ciò che conta agli occhi di chi vuole “smontare pezzo per pezzo” la riforma Fornero.

 

Intendiamoci: ridare un po’ più di flessibilità al pensionamento era ragionevole ed era peraltro già cominciato con l’APE, nelle due varianti, sociale (con costi a carico dello stato) e libera (con costi a carico del lavoratore). Sostenere che si sarebbe potuto continuare lungo quella strada, magari aumentando le risorse, può apparire ingenuo soltanto a chi ritiene che in politica sia necessario dire agli elettori non la verità ma ciò che vogliono sentirsi dire. In fondo, questo schiacciamento sul presente è il motivo per cui, nelle pagelle di fine anno, il ministro Salvini ha preso i voti migliori nel governo, chiaramente basati non sul merito delle sue politiche, largamente discutibili, ma sulla sua capacità di generare consenso, almeno nel breve termine.

 

Pur con i vincoli e i condizionamenti sull’anticipo del pensionamento, la controriforma delle pensioni assorbe risorse cospicue. La quota cento generalizzata, anche se limitata al triennio 2019-2021; la proroga dell’opzione donna (pensionamento con il metodo interamente contributivo con 57 anni di età e 35 di contributi)  e dell’Ape sociale (limitata a disoccupati/lavoratori disagiati); lo stop all’adeguamento alla speranza di vita dei requisiti per il pensionamento anticipato; il riscatto agevolato dei periodi non lavorati successivi al 1996 nell’insieme potranno costare 20-22 miliardi nel solo triennio 2019-21. E’ difficile pensare che le risorse necessarie possano venire dalla crescita e, in ogni caso, è opportuno domandarsi se questa era davvero una priorità per un paese nel quale i viadotti crollano e dal quale i giovani scappano.

 

  

La controriforma è però anche furbesca perché viene offerta come grande opportunità mentre è contornata di condizioni che ne riducono fortemente la convenienza ma scalfiscono di poco il messaggio mediatico complessivo. Intanto, essendo il metodo contributivo di calcolo delle pensioni in vigore dal primo gennaio 2012 (anche per il famoso “vitalizio” dei parlamentari), ogni anno di anticipo del pensionamento rispetto alle regole della riforma Fornero comporta una perdita di pensione dell’ordine del 3-5 per cento per anno. E’ il risultato, secondo quanto illustrato prima, dei minori contributi versati e della minore età di pensionamento. Non un “taglio” ma la rinuncia a un aumento, che per alcuni non sarà indolore né volontario date le pressioni che i datori di lavoro inevitabilmente eserciteranno nei confronti dei lavoratori “pensionabili”. A questa “perdita” si aggiungerà, per le pensioni superiori a 1.524 euro lordi mensili, il blocco (parziale) per cinque anni dell’indicizzazione delle pensioni ai prezzi, una misura che faceva anche parte della riforma Fornero, ma in condizioni finanziarie ben peggiori di quelle attuali e che allora aveva l’obiettivo di chiedere anche ai pensionati meno poveri, e non solo ai lavoratori, una partecipazione ai sacrifici e non di favorire il pensionamento anticipato di alcune classi di classi di età. Anche la reintroduzione delle “finestre” e il divieto di cumulo sono misure di retroguardia, che si sperava di avere definitivamente superato. E poi c’è la misura simbolo , il taglio alle “pensioni d’oro”, che avrebbe potuto essere anch’essa segnalare “condivisione” ma si è trasformata in scalpo da esibire alle masse (d’altronde tutto è “esibizione” in questo governo).

  

Mentre va rispettata la legittima aspirazione di molti concittadini ad anticipare il pensionamento, il modo in cui lo si è fatto è forse il peggiore: propagandistico, di breve termine, slegato da ogni possibile visione strategica de futuro (che fine hanno fatto il lavoro inclusivo, il pensionamento graduale e l’invecchiamento attivo?), illusorio (la sostituzione “miracolistica” tra lavoratori giovani e anziani). Un cambiamento che, anziché di nuovo, sa molto di antico.

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