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Attenti ai cinesi quando bussano ai porti

Alberto Brambilla

I rischi di offrire infrastrutture al Partito comunista. Parla Pino Musolino, presidente dell’Autorità di sistema portuale del mare Adriatico settentrionale

I cinesi sono desiderosi di investire in nuovi terminal, banchine, cantieri, piattaforme logistiche e aree industriali nei porti italiani, in particolare in quello di Trieste, data la sua maggiore integrazione nelle reti ferroviarie europee rispetto al Pireo, il porto greco rilevato da Cosco (China Ocean Shipping Company) nel 2016. Cosco ha una strategia di acquisti nel continente che interessa i principali porti italiani che riguarda appunto Trieste, Venezia, Ravenna, e poi Capodistria in Slovenia e Fiume in Croazia.

 

A Vado Ligure una succursale di Cosco Shipping Ports e la Qingdao port international development acquisiranno il 49 per cento del terminal container, mentre il restante resterà alla danese Maersk. A Ravenna la società statale China merchant industry group dice di investire circa 10 milioni di euro nella sua sede ravennate per progettazione di navi e impianti per il settore dell’oil & gas e design di navi da crociera. Dopo l’arresto, su ordine americano, della figlia del fondatore della compagnia di infrastrutture telefoniche cinese Huawei, gli investimenti di Pechino in occidente sono sotto scrutinio. E in Italia la questione strategica degli investimenti di società riconducibili a Pechino rischia di essere presa con una superficialità che non merita, come dice al Foglio Pino Musolino, presidente dell’Autorità di sistema portuale del mare Adriatico settentrionale con sede a Venezia. Musolino, classe 1978, è veneziano di nascita ed è tornato in Laguna dopo avere conseguito un master in International Commercial and Maritime Law alla University of Wales, avere lavorato nel porto di Anversa, il secondo porto commerciale d’Europa, per la società di servizi marittimi Atlantis, e, da ultimo, a Singapore per Hapag Lloyd, la quarta più grande compagnia porta container, come Corporate insurance risk manager. “Le discussioni sono spesso falsate da una visione limitata o poco puntuale del disegno cinese – dice Musolino – che risponde a esigenze squisitamente interne alla Cina. L’esigenza è quella di permettere a una classe media, cresciuta a tassi del pil in doppia cifra, di continuare a crescere nonostante il ‘new normal’ di un pil annuale del sei per cento”.

 

L’esigenza cinese è di mantenere il tenore di vita elevato della sua popolazione che, secondo Musolino, ha una finalità politica che passa dalla espansione delle infrastrutture e quindi dei commerci del gigante asiatico attraverso la Belt and road initiative (Bri) che risale al 2013. “Per mantenere uno standard elevato di qualità della vita i cinesi devono tenere artatamente alta la produzione industriale con una sovracapacità che deve sfogarsi altrove, attraverso il commercio, affinché non sia il Partito comunista stesso a venire messo in discussione dalla popolazione. E’ questo, in fondo, il motivo per cui hanno lanciato il progetto della Bri , ovvero per crearsi dei mercati di sbocco attraverso un’opera infrastrutturale”.

 

Musolino non ha pregiudiziali contrarie ma fa notare che lo sviluppo della strategia Bri nei paesi asiatici vicini alla Cina si basa su una specie di gioco d’azzardo che i paesi occidentali dovrebbero valutare: le infrastrutture vengono infatti finanziate a leva con crediti cinesi, in paesi con un rating prossimo al livello “junk” oppure non valutati dalle agenzie principali, che quindi si legano a un rapporto subalterno con Pechino. “Noi come Italia ed Europa non abbiamo bisogno di finanziamenti cinesi, a noi interessa semmai avere flussi commerciali maggiori, che anche i cinesi possono offrire, e aumentare i traffici nei nostri porti”. E’ con questa strategia – sfruttare i traffici cinesi – che Musolino ha stretto un accordo con la cinese Cosco che dal 9 novembre 2019 avvierà un nuovo collegamento tra il suo hub del Mediterraneo, il Pireo, e lo scalo dell’Adriatico settentrionale di Venezia. “Con Cosco mi assicuro un flusso di traffico ma è ben diverso dall’investimento in un terminal che potrebbe rischiare di compromettere il tanto decantato interesse nazionale o di provocare altre criticità”, dice Musolino osservando il Pireo acquisito da Cosco a partire da quando la crisi finanziaria greca era all’apice nel 2010. “Il motto del Pireo è di essere uno ‘zero strike port’ un porto dove non ci sono scioperi”. Infatti al Pireo ormai circa l’80 per cento dei lavoratori è desindacalizzato. Si vorrebbe lo stesso in Italia? La Grecia è il paese con il più alto numero di armatori ma non ha più un porto perché, oltre ai cinesi, il resto è in mano a un consorzio franco tedesco. Noi che abbiamo circa ottomila chilometri di coste, oltre che mantenere il controllo di infrastrutture strategiche dovremmo svilupparle per guadagnare il massimo”. La situazione greca in Italia al momento non ci può essere, perché i porti per struttura giuridica sono enti pubblici nazionali e amministrano il demanio marittimo portuale. Tuttavia è una discussione in voga quella di trasformarli in Società per azioni (Spa) per aumentarne l’efficienza, ed eventualmente, permettere allo stato di incassare mettendo quote sul mercato. In quel caso, la situazione cambierebbe, dice Musolino. “In sottofondo e in prospettiva ritengo che sia meglio mettere le società pubbliche in condizioni di lavorare meglio anziché procedere a una privatizzazione dei porti con delle Spa private messe sul mercato perché, eventualmente, molti soggetti privati, tra cui anche i cinesi, ci farebbero un lauto pasto. Non è una prospettiva molto remota, in quel caso, la cessione del controllo di una struttura strategica per l’economia e per l’esistenza stessa di un paese costiero come il nostro. Di certo dobbiamo fare affari con tutti, ma se proprio dobbiamo fare una scelta preferisco l’alveo euro-atlantico piuttosto che finire sotto un Beijing consensus”, conclude Musolino.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.