Amos Genish (foto LaPresse)

Protagonisti della parabola flop di Tim e l'involuzione della rete unica

Renzo Rosati

Il “putsch” contro l’ad Genish è l’apice di un lungo psicodramma sovranista da Calenda a Di Maio

Roma. Sfiduciato l’amministratore delegato Amos Genish – definitosi vittima di “un putsch in stile sovietico” – gli attuali controllori di Tim – considerati vicini al governo e ai suoi piani di rete unica nazionale in fibra ultra-veloce – potrebbero trovarsi tra capo e collo il più classico dei boomerang. E con loro il ministro dello Sviluppo Luigi Di Maio, sponsor della “rete sovranista”, con un emendamento annunciato al “decreto semplificazioni”.

 

Domenica il consiglio d’amministrazione nel quale la Cassa depositi e prestiti, il fondo americano Elliott e alleati hanno 10 rappresentanti su 15 dovrebbero nominare il nuovo ad. Ma se Vivendi, azionista francese di maggioranza con il 24 per cento, riuscirà prima o dopo il 18 novembre a ottenere una nuova assemblea, il ribaltone sarebbe assicurato e l’intero progetto governativo franerebbe. Il 4 maggio Elliott, Cdp e alleati minori avevano raccolto il 49,84 dei voti contro il 47,18 di Vivendi. Un margine minimo che aveva puntato sul rilancio. Da allora però il titolo Telecom Italia si è svalutato del 36 per cento, l’utile di 1,2 miliardi è diventato una perdita di 800 milioni, Genish ha svalutato due miliardi di asset, il debito è salito a 25 miliardi.

 

Non solo. Tim ha sborsato 2,4 miliardi per l’asta delle frequenze mobili 5G, che non hanno a che fare con la rete in fibra ma sono molto più del previsto avendo il governo deciso di fare cassa. I dipendenti messi in solidarietà sono già 30 mila, gli appalti e pagamenti ai fornitori sono rallentati oggi come allora: l’esatto contrario di quanto promesso sotto le parvenze di una Tim strappata agli odiati francesi grazie alla Cdp e al fondo Elliott cavaliere bianco. Il fondo speculativo di Paul Singer però si interroga sui ritorni della partnership con il Tesoro. E si interrogano tutti gli altri attori coinvolti nell’operazione messa in piedi da Di Maio con l’avallo, pare, della Lega: unificare le due reti, di Tim e della concorrente pubblica Open Fiber, in un’azienda unica a controllo pubblico. Non solo. I soci di Open Fiber, Cdp e Enel, entrambi al 50 per cento, sono in disaccordo sulla fusione: la Cdp, i cui vertici sono appena stati rinnovati dal governo con la mission di statalizzare il possibile, per ora si adegua; ma l’Enel ha espresso finora scetticismo. “Pensiamo al massimo a collaborazioni commerciali per ridurre i costi”, ha sempre ripetuto l’ad di Enel Francesco Starace.

 

E se l’Enel intende difendere il core business che non è la telefonia ma l’elettricità (e ancora più lo diverrà con le auto ibride ed elettriche), neppure l’ad di Open Fiber Elisabetta Ripa si dice “appassionata dalla fusione. Siamo un’azienda di infrastrutture, non di servizi”. Azienda che ha già dovuto chiedere alle banche 3,5 miliardi su 6,5 complessivi per portare la rete a 20 milioni di famiglie. Certo, il governo può imporsi sulla Cdp; forzare la mano a Enel sarebbe un rischio. Così quella che già con il Pd e Carlo Calenda era nata come un’operazione nazionalista in nome della “strategicità” delle rete (e di Sparkle, l’azienda di routing internazionale che custodisce dati sensibili, che Tim si è detta disposta a cedere), con Di Maio si sta trasformando in un mostro di Frankenstein. Due aziende del Tesoro, nessuna delle quali specializzate in telefonia, dovrebbero diventare partner di un gruppo telefonico privato, con traballante governance a prevalenza americana e primo azionista francese; dovrebbero completare la sua maggiore infrastruttura e poi, di fatto, espropriarla.

 

La nuova compagnia della rete (Netco) sarebbe un monopolista non quotato e non quotabile, visto che avrebbe compiti regolatori e verrebbe finanziato con il Rab (base patrimoniale regolamentare), che si traduce in una super-tariffazione a carico dei clienti. Magari Di Maio non considera che una Tim a rischio svuotamento perderebbe altra capitalizzazione divenendo preda di gruppi stranieri grandi da sei (Deutsche Telekom) a quattro volte tanto (Orange). Sempre che Vivendi non riprenda appunto il controllo. Anche Mary Shelley aveva immaginato il mostro di Frankenstein come una vittima, che uccide chi l’ha creato.