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I riformatori al riformatorio di Bruxelles

Redazione

Su cosa devono piegarsi i gialloverde per ottenere un compromesso con l’Europa

Sul Sole 24 Ore Paolo Savona, ministro degli Affari europei, cita a conforto delle proprie tesi di riforma radicale dell’Unione europea un appello firmato su Handelsblatt di sei accademici e politici tedeschi di lungo corso: Hans Eichel, Jürgen Habermas, Roland Kock, Friedrich Merz, Bert Rürup e Brigitte Zypries. Tutti della tradizione più filoeuropeista della Germania, cioè dell’establishment di cui Luigi Di Maio, sul Financial Times, profetizza la sconfitta a opera delle forze populiste “per abbandonare l’austerity e abbracciare la politica di Trump”.

 

Mentre Matteo Salvini di quella alleanza tra estremisti tedeschi dell’AfD e francesi del Front national sogna di essere il dominus: sogna, in quanto proprio l’AfD ha definito “una follia” la manovra economica gialloverde, come il governo “amico” austriaco, mentre il blocco di sei paesi nordici chiede di non concedere più sconti a paesi indebitati come l’Italia. Savona, autore del piano B di uscita dall’euro, cerca dunque la sponda sbagliata.

 

Nel frattempo il ministro dell’Economia è impegnato in una trattativa con Bruxelles nella quale, pare, può offrire solo due cose, ma senza dirlo: il rinvio dei provvedimenti simbolo della manovra del popolo (smantellamento della legge Fornero e reddito di cittadinanza) e una sorta di contromanovra, pare avallata dall’ala istituzionale delle Lega, che ridurrebbe il deficit dal 2,4 per cento all’1,8 del pil. Il ministro cerca poi flessibilità per le calamità naturali.

 

I riformatori rischiano così di essere mandati al “riformatorio”, o di adeguarsi alle vie d’uscita che i sovranisti addebitano al Pd, ripetendo però che “la manovra non cambia”. Tutto è negoziabile, figuriamoci in un’Europa che va alle elezioni divisa: non però sulla lezione da dare all’Italia. Per rompere l’accerchiamento servirebbero rapporti decenti con i governi odiati da Salvini e Di Maio: i macroniani francesi, la Germania merkeliana, i socialisti spagnoli. E la Banca centrale europea di Mario Draghi. Un compito che non può essere lasciato alle circonlocuzioni di Savona né al solo Giovanni Tria, che martedì ha appunto lasciato il vertice Ecofin (in corso) come già accaduto una volta in passato. Con la crescita 2019 inferiore al previsto, che manderà a gambe all’aria deficit e debito, il ritorno alla realtà non verrà dall’Europa, ma dai rating e dai mercati.