Maurizio Landini (foto LaPresse)

Landini o no, le nozze tra Cgil e 5 stelle sono un fatto

Carlo D'Onfrio

Al possibile segretario del sindacato conviene mostrarsi moderato non perché è stato sconfitto sul piano politico, ma perché ha vinto

Non è ancora chiaro se Maurizio Landini riuscirà ad issarsi sul ponte di comando della Cgil, ma la discussione sorta prima e proseguita dopo l’ultimo direttivo, quello in cui è sfumato l’assalto dei suoi avversari radunatisi attorno a Vincenzo Colla, forse andrebbe riorientata.

 

Più che concentrarsi su Landini sarebbe opportuno infatti interrogarsi sulla “landinizzazione”. In altri termini: a contare non è tanto l’uomo con la sua ambizione (legittima, ovviamente) di prendere la guida del primo sindacato italiano, quanto la disposizione di quest’ultimo ad accoglierne le idee. Disposizione che negli ultimi anni si è tal punto rafforzata fin quasi da determinare una mutazione genetica dei cromosomi, vale a dire del patrimonio politico – culturale, della confederazione di Corso Italia. Dovesse fallire la scalata di Landini, molto probabilmente la “landinizzazione”, già oggi in stadio avanzato, sopravvivrebbe al suo artefice.

 

Lungo i primi anni di mandato Susanna Camusso si è spesso confrontata a muso duro con il suo delfino, allora segretario generale della Fiom. Ma avendo constatato l’impossibilità di normalizzarne la foga movimentista, che a un certo punto si era incarnata nel fumoso e ben presto sfumato progetto della Coalizione sociale, ha preferito adottare la tattica dell’abbraccio: stringere a sé il nemico politico per domarne poco a poco lo spirito ribelle anziché combatterlo in campo aperto.

 

La manovra però non le è riuscita. O, per meglio dire, le è riuscita solo all’apparenza. L’ultimo Landini ha in effetti sfoggiato un profilo più moderato, ha accettato la cooptazione nella casa madre e ha temperato la sua irruenza politica rinunciando a presentarsi come il possibile federatore di una nuova Cosa Rossa. Ha perfino firmato il contratto dei metalmeccanici, che la Fiom non aveva più sottoscritto dal 2008, inghiottendo e facendo inghiottire ai suoi, che li hanno digeriti solo per disciplina interna, una serie di compromessi su materie (contratti aziendali e sanità integrativa, per esempio ) giudicate fino a quel momento alla stregua dello sterco del demonio. Ovviamente non è mancato qualche commentatore di vista corta che ha accreditato l’idea della definitiva maturazione di una leadership pragmatica, forse perché tratto in inganno dalla chiusura della fase descamisada. Ma questa chiusura, che indubbiamente c’è stata, non è frutto di alcun ripensamento. Perché non di ritirata strategica si tratta, ma di ripiegamento tattico. A Landini conviene mostrarsi moderato non perché è stato sconfitto sul piano politico, ma perché ha vinto; dunque non ha bisogno di creare intorno a sé tensioni che potrebbero ostacolare la sua ascesa. E perché mai dovrebbe?

 

L’abbraccio della Camusso, rivelatosi in breve tempo una resa,  ha aperto le porte della Cgil alla piattaforma “sandinista” (da Claudio Sabattini, detto maliziosamente “il sandinista”  dal socialista Ottaviano Del Turco) che negli ultimi tre decenni è stata la Magna Charta della Fiom e su cui Landini, se si eccettua qualche variazione sul tema per adeguarne lo spirito ai tempi, ha innovato in fondo ben poco, limitandosi a portare a compimento la transizione al populismo sindacale in atto da tempo. Il perno di questa concezione è il sindacato – movimento, un sindacato cioè che si ritira via via dal classico terreno di gioco dell’attività contrattuale per spostare le sue rivendicazioni sul terreno politico, finendo in questo modo per assumere i tratti del partito. Di qui il matrimonio con l’idelologia dei diritti, che conduce alla continua richiesta di provvedimenti legislativi, concepiti come la via più idonea (e più sbrigativa) a garantire nuove tutele ed a soddisfare nuove aspirazioni dei lavoratori. Se qualcuno nutre dubbi sull’osmosi che si è compiuta a livello culturale tra la Fiom  e la Cgil, non ha che da rileggere la Carta dei diritti universali del lavoro, il progetto di legge di iniziativa popolare che Susanna Camusso ha presentato ad un benedicente Roberto Fico non appena questi si è installato a Montecitorio.  Le lodi di cui in quell’occasione il presidente della Camera fu prodigo verso la Cgil non vanno considerate di mera cortesia. Anche il Movimento 5 Stelle, infatti, è devoto all’ideologia dei diritti e crede fermamente nei poteri taumaturgici del legislatore (Rosseau è il santo patrono dei pentastellati non per caso). Solo così si può arrivare a concepire il disegno di riscrivere in un colpo tutto il diritto del lavoro italiano degli ultimi cinquant'anni: è il bello, anzi il brutto, del pangiuridicismo. Peraltro siamo già ben oltre le affinità elettive. Giuliano Cazzola ha documentato che il testo del decreto dignità ricalca fedelmente, nella parte in cui vengono ripristinate le causali per la proroga dei contratti a tempo indeterminato, un articolo della Carta cgiellina. Nessuna svista o, tanto meno, plagio, intendiamoci. E' che durante la stesura pare sia spuntata una “manina”,  quella dei giuristi di osservanza cgiellina Piergiorgio Alleva e Marco Barbieri. Stavolta, però, dalle parti di Di Maio nessuno se ne è lamentato, anzi a quanto risulta i due non sono stati nemmeno denunciati alla Procura di Roma.

 

Molto si è detto sull’avvicinamento che l’elezione di Landini a segretario potrebbe determinare tra la Cgil e i 5 Stelle e sulle ricadute che ciò potrebbe avere sul sindacato, sulla sinistra e più in generale sul corso della politica italiana nei prossimi anni. Per alcuni si tratta di un auspicio, per altri di uno spauracchio. Ma la questione, in questi termini, è mal posta. Perché il problema, avrebbe detto Gaber, non è Casaleggio in sé, ma Casaleggio in me.

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