Cosa può fare Confindustria per incalzare il governo sui contratti

Paolo Rebaudengo e Giuseppe Sabella*

L’art. 8 by Sacconi fu criticato perché liberava Marchionne dai contratti collettivi, ora serve a liberarsi del “Decreto Dignità”

Tra le novità previste dal recente Decreto Dignità, c’è un irrigidimento sulla normativa dei contratti a termine. In particolare sono state reintrodotte le causali giustificative e ne è stata ridotta la durata da 36 a 24 mesi.

   

L’intervento si basa sul presupposto – sbagliato – che irrigidendo le regole del rapporto di lavoro a termine si crei più occupazione di qualità: restringendone l’utilizzo, si dovrebbero così creare più occupati a tempo indeterminato.

   

Questo approccio, carico di ideologia, è stato più volte smentito nella storia economica recente, ma periodicamente torna alla ribalta.

  

   

Gli andamenti economici e di mercato non garantiscono sempre agli imprenditori quella stabilità che è il presupposto del contratto di lavoro a tempo indeterminato. E il contratto a termine, molto utilizzato dalle imprese, è erroneamente ritenuto un “contratto precario”: certo ci sono abusi che vanno contenuti, ma il contratto in sé presenta tutte le tutele previste da quello a tempo indeterminato. L’unica differenza sta nella durata, non indicata, del termine dell’attività.

 

Sorprende, pertanto, l’inerzia con cui le parti sociali hanno accolto l’intervento, anche in ragione dello spazio e della possibilità che hanno di scrivere le regole del lavoro.

  

Val la pena di ricordare, infatti, che il celebre articolo 8 della cosiddetta manovra d’estate (2011) – proposto da Maurizio Sacconi – permette a imprese e lavoratori tramite accordi sindacali di derogare anche alle leggi dello Stato – seppur entro i limiti dettati dalla Costituzione e dall’ordinamento comunitario – al ricorrere di determinate esigenze (per esempio la maggiore occupazione, l’emersione del lavoro irregolare, gli incrementi di competitività e di salario, la gestione delle crisi aziendali e occupazionali, ecc.) e su materie standardizzate dal legislatore tra cui, appunto, i contratti a termine.

   

L’articolo 8 fu all’epoca accolto con freddezza, anche dalla Confindustria, perché secondo le parti si trattava di un favore che il governo faceva alla Fiat che aveva individuato nel suo contratto aziendale l’alternativa al contratto collettivo nazionale di lavoro. Ne fu quindi rifiutata l’applicazione generando la conseguente uscita di Fiat dall’organizzazione confindustriale.

 

In realtà, con questo articolo si legittimava da un punto di vista legislativo l’efficacia della contrattazione aziendale e si valorizzavano in sé le relazioni industriali che, in quel momento, avevano necessità di un grosso cambiamento. Ma non ci fu la necessaria consapevolezza delle parti sociali, condizionate dal loro approccio ideologico.

 

Oggi, cambiato lo scenario, si sono create opportunità affinché l’articolo 8 sia meglio apprezzato, sebbene la contrattazione di secondo livello offra ancora segnali piuttosto timidi. Sono pochissimi, inoltre, i casi di accordi aziendali in deroga alla nuova normativa proprio sui contratti a termine.

 

Da almeno due decenni, l’economia ci chiede di gestire la mobilità del lavoro. Come affrontare questo problema è la sfida del nostro tempo, che certamente non si vince tornando indietro – con regole vecchie – ma adattando al nuovo scenario le tutele e le opportunità per i lavoratori, offrendo soluzioni adatte anche alle imprese.

 

Se il legislatore se ne dimentica, è importante che se ne ricordino le rappresentanze dei lavoratori e delle imprese. Il tanto conclamato primato del contratto sulla legge ha oggi la grande occasione per rivelarsi tale.

  

*Rebaudengo è stato capo delle relazioni industriali Fiat; Sabella è direttore esecutivo del think tank Think-industry 4.0