Mario Nava (foto LaPresse)

Perché un paese che non investe sulla cultura del rischio è fottuto

Claudio Cerasa

La Borsa siamo noi. Il caso Nava, il futuro della Consob, il crollo delle azioni italiane e la ragione per cui un governo che aggredisce la competenza è destinato a trasformare il mercato in un problema più che in un’opportunità

La parola “Consob” tende a suscitare nel lettore reazioni non troppo diverse da giganteschi sbadigli ma se provate per un attimo a mettere da parte il soporifero acronimo della “Commissione nazionale per le società e la Borsa” e lo sostituite con un’espressione un pochino più pop, avrete forse l’idea di che partita si sta giocando in queste ore intorno alla nomina del successore di Mario Nava, ex presidente di Consob dimessosi giovedì scorso a causa di un’aggressione politica contro l’organo di controllo della Borsa portata avanti da Movimento 5 stelle e da Lega. Potremmo metterla così e non solo per attirare la vostra attenzione. Il punto è: o la Borsa o la vita. Il nostro ragionamento parte da un’opzione concreta che potrebbe manifestarsi nell’iter che porterà la maggioranza di governo a nominare il successore di Mario Nava e l’opzione che hanno di fronte a sé gli azionisti del cambiamento populista non è tanto se scegliere un competente o un non competente ma è se scegliere un uomo che di fronte al mercato, e di fronte alla Borsa, intende muoversi più come un carceriere o più come un facilitatore. Osservare l’andamento della Borsa italiana, lo sappiamo, ci permette di capire molte cose di questa complicata fase politica vissuta dal nostro paese.

  

  

Non è un caso se da fine maggio a oggi la Borsa italiana è scesa tre volte la Borsa francese. Non è un caso se da fine maggio a oggi le azioni della Borsa italiana hanno perso circa il 10 per cento del proprio valore. Non è un caso che Piazza Affari è diventata una delle borse più in sofferenza d’Europa dopo essere stata a fine 2017 la migliore su scala continentale. Non è un caso se tutto questo accade negli stessi mesi in cui vi è un vicepresidente del Consiglio, Luigi Di Maio, che imbroglia gli elettori dicendo che se dovesse scegliere tra lo spread e gli italiani sceglierebbe gli italiani. Un governo che considera la finanza come lo sterco del demonio, che osserva gli investitori internazionali come se fossero più potenziali nemici che potenziali alleati, che architetta leggi utili a incentivare l’acquisto da parte dei risparmiatori più di titoli di stato che di azioni o obbligazioni, che spara balle complottiste sui finanzieri che governano il mondo, è un governo che rappresenta un veicolo naturale di odio nei confronti del mercato e se l’odio per il mercato dovesse essere anche la stella polare utilizzata per scegliere il successore di Nava per l’Italia sarebbe un rischio enorme, perché farebbe perdere al nostro paese l’occasione di muoversi verso una direzione necessaria per sbloccare il paese, creare ricchezza e generare nuovi posti di lavoro. E per capire il senso del nostro ragionamento può essere utile riavvolgere il nastro e andare allo scorso 11 giugno, quando il presidente uscente di Consob Mario Nava ha detto, nel corso dell’incontro annuale della Consob con il mercato finanziario, le stesse cose che probabilmente direbbe oggi al suo successore: il mercato non è un’entità astratta ma il mercato siamo noi. Può sembrare solo una banalità retorica ma dire che “il mercato siamo noi” significa osservare il mondo dell’economia con un occhio intenzionato a considerare gli azionisti e la Borsa alleati preziosi all’interno di un’economia. Di Maio e Salvini non lo sanno e anche se lo sapessero farebbero finta di non saperlo, ma una delle ragioni di debolezza strutturale del nostro paese ha a che fare anche con la riluttanza che hanno le nostre imprese a quotarsi quando potrebbero.

 

La riluttanza, notava Nava a giugno, discende da vari ostacoli che un presidente della Consob può decidere se provare a superare oppure no: fattori culturali, la scarsa conoscenza dei vantaggi legati alla quotazione, la paura di perdere il controllo della propria società, la percezione di costi elevati, la non consapevolezza dei benefici che una quotazione può portare alle società in buona salute “in termini non solo di accesso a fonti di finanziamento alternative, rispetto a quelle bancarie, ma anche di opportunità di crescita, reputazione, visibilità”. L’Italia, e siamo sicuri che la Toninelli Associati è intensamente consapevole di questo problema, è la nona economia al mondo in termini di prodotto interno lordo ma è solo il paese numero diciassette in termini di capitalizzazione della piazza finanziaria. E a sua volta, rispetto al pil, la capitalizzazione della nostra Borsa vale circa la metà di quella tedesca e di quella della zona euro, un terzo di quella francese e un quarto di quella inglese. E il mercato azionario italiano, leggiamo sempre dalla relazione di Nava, è piccolo non solo in termini di capitalizzazione ma anche rispetto al numero di società quotate. A fine 2017, il numero delle società domestiche quotate sul Mercato telematico azionario di Borsa Italiana era pari a 240, nettamente inferiore a quello di altri mercati europei. Le società del Mercato telematico azionario che vantano una capitalizzazione superiore, per esempio, alla soglia dei 50 miliardi di euro sono, infatti, solo due. Tante quante in Spagna, la metà che in Olanda e una frazione di quelle di Francia e Regno Unito. E il nostro mercato infine si caratterizza anche per l’esigua presenza delle big companies – “e un mercato con poche big companies risulta meno attraente sia per le società di grandi dimensioni sia per i grandi investitori istituzionali”.

 

A tutto questo vanno aggiunti alcuni dati drammatici relativi alla cultura finanziaria del nostro paese che sono insieme il sintomo e la conseguenza dell’incapacità dell’Italia di saper coltivare una sana cultura del rischio. Il 40 per cento degli italiani non sa valutare le proprie conoscenze finanziarie. Il 50 per cento è a disagio con la finanza. Il 53 per cento non ha idea di cosa sia l’inflazione. Il 52 per cento non ha idea di che relazione ci sia tra la parola rischio e la parola rendimento. La maggior parte degli italiani non ha un piano finanziario, né legge l’informativa finanziaria e quasi il 40 per cento investe senza comprendere. E il risultato è un quadro di percezioni soggettive, che riducono la qualità delle scelte, e di emotività e sfiducia, che riducono la partecipazione al mercato finanziario. Di fronte a questa mole di dati un governo e una classe dirigente hanno due strade da imboccare. Favorire l’accesso al mercato delle imprese e la rimozione degli ostacoli alla loro quotazione e fare di tutto per aumentare la quantità delle società quotate e la loro attrattività. La gravità della cacciata indiretta di Nava prima ancora che nelle modalità di sfiducia in fondo è proprio questa. Il governo deciderà di scommettere su un volto capace di promuovere la cultura del rischio o sceglierà un volto interessato solo a punire con sempre più severità chi commette un errore?

 

La tutela pubblica del risparmio, era la teoria di Nava, non può significare l’azzeramento del rischio di investimento. La regola n. 1 in finanza è “no risk no return”. Se non c’è rischio, non ci può essere rendimento. E un paese che trasforma il rischio non in una fonte di opportunità ma in una fonte di corruzione è un paese che ha scelto di non scommettere più sul suo futuro. A inizio anno l’amministratore delegato di Borsa Italiana Raffaele Jerusalmi aveva assicurato che nel corso del 2018 l’Italia avrebbe festeggiato almeno 50 quotazioni in Borsa. A settembre le quotazioni sono meno di venti. Non è necessario essere intelligenti come Toninelli per capire che un paese che non incentiva gli investimenti, anche attraverso i cordoni della Borsa, non è un paese che sceglie di proteggere i cittadini ma è un paese che sceglie semplicemente di non investire più sul futuro dei nostri figli.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.