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La Bce sarà flessibile come una startup finché si farà guidare dai dati

Alberto Brambilla

Ripristinata una politica accomodante ancora a lungo. È presto per temere la rigidità di una guida “nordica”, dice Giavazzi

Roma. Le Banche centrali sono all’apice della catena alimentare della finanza e sicure di questa dominanza possono variare postura senza conseguenze sostanziali. In merito alla riduzione e successivo smantellamento del programma di acquisto di titoli pubblici e privati, il Quantiative easing, e l’uso della leva dei tassi, a livello zero, la Banca centrale europea ha una posizione cangiante per cui, con uno sforzo di semplificazione, l’unica coerenza rintracciabile è quella dell’incoerenza.

  

Dall’ultimo bollettino mensile dell’Eurotwer, pubblicato ieri, non si afferma la volontà di discutere una exit strategy dagli stimoli monetari ma anzi si torna sull’idea di mantenere una politica accomodante. Nel bollettino si ricorda infatti che il Consiglio direttivo ha confermato l’intenzione di condurre acquisti netti di attività all’attuale ritmo mensile di 30 miliardi di euro sino alla fine di settembre 2018 “o anche oltre se necessario” e in ogni caso “finché il Consiglio direttivo non riscontrerà un aggiustamento durevole dell’evoluzione dei prezzi coerente con il proprio obiettivo di inflazione”.

 

Il bollettino riassume la posizione espressa nell’ultimo Consiglio del 26 aprile. Tuttavia le indicazioni del presidente della Bce, Mario Draghi, nella conferenza stampa precedente, dell’8 marzo, avevano diversa intonazione. Tanto che gli osservatori esperti nel leggere il labiale dei banchieri centrali, avevano notato che in quell’occasione per la prima volta la Bce stava andando verso la normalizzazione: dal comunicato finale del Consiglio venne appunto rimossa l’opzione di procedere ad aumenti in termini di quantità e/o durata del programma di acquisti “in caso le prospettive non dovessero essere favorevoli”.

 

Era un’opzione introdotta nel 2016. E benché attualmente sia confermato l’intento di non aumentare la mole di acquisti, ridotta da 80 a 30 miliardi al mese, l’idea di non estenderne la durata è di nuovo accantonata. E non è solo il bollettino a ribadirlo. Draghi stesso l’aveva anticipato ripristinando la formula “anche oltre se necessario” e insistendo su “pazienza, prudenza e perseveranza”. Il flip-flop nella visione della Bce è motivato dal contesto macroeconomico dato che la crescita nell’Eurozona è in flessione che il tasso di inflazione non accelera.

 

Francesco Giavazzi, professore di Economia politica all’Università Bocconi, non ravvisa un cambiamento sostanziale nella posizione Bce che è ancorata all’obiettivo di inflazione al 2 per cento nell’area: “La flessibilità della politica monetaria è in funzione della flessibilità dell’economia e le decisioni sono guidate dall’analisi dei dati economici”. Giavazzi non pensa però che questa flessibilità verrà messa a rischio in futuro da una Bce guidata, come si immagina, da un esponente dei paesi nordici, ergo più rigido. Nella primavera dell’anno prossimo cambierà capo economista – Peter Praet s’è distinto per l’attenzione all’analisi dei dati più del predecessore Jorge Asmussen, ex funzionario del ministero delle Finanze tedesco. In autunno Draghi verrà sostituito.

 

“La Bce dovrà discutere come cominciare a ritirare gli stimoli a partire da settembre. Ma da qui al 2019, quando scade il mandato di Draghi, la linea non cambierà. Parliamo di un orizzonte al 2020 e non sappiamo come sarà cambiato il mondo. Ci vorrà molto tempo per la riduzione degli stimoli e, soprattutto, per la normalizzazione dei tassi d’interesse. Dopodiché – dice Giavazzi – bisognerà capire in che misura il bilancio Bce verrà riportato alle posizioni iniziali: parliamo di in un orizzonte di cinque/sei anni prima che la Bce metta sul mercato i titoli acquistati (circa 2.500 miliardi di euro) che per l’Italia corrisponde al 10 per cento circa del debito in circolazione”. La Bce ha una flessibilità degna di una startup più che di un organismo burocratico che insiste su 19 paesi, almeno finché manterrà l’attenzione all’analisi dei dati e non si lascerà condizionare da indicazioni politiche degli stati membri.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.