Mario Draghi (foto LaPresse)

La prudenza dei Draghi

Stefano Cingolani

I banchieri centrali tra il rischio bolla e la crescita incerta. E con le munizioni quasi tutte esaurite

Prudente è Mario Draghi e lo ha detto alla conferenza stampa dopo la tradizionale riunione della Bce. Prudente è Jerome Powell, il presidente della Federal Reserve incoronato da Donald Trump. Prudenza sembra la parola d’ordine di tutti i banchieri centrali. Draghi, memore dei suoi studi giovanili con i gesuiti, aggiunge anche due altre virtù: pazienza e perseveranza. Il fatto è che gli ultimi dati sulla congiuntura hanno sorpreso i signori della moneta i quali a questo punto sentono di aver consumato le loro munizioni. Dopo aver sparato con il bazooka ci vorrebbe un missile intercontinentale. Con tutto il denaro versato in abbondanza sul mercato, la crescita resta ancora anemica e per di più sta rallentando. Nel primo trimestre il prodotto lordo della zona euro è aumentato dello 0,4 per cento rispetto allo 0,7 negli ultimi tre mesi dell’anno scorso. Nessuno è in grado di dire se si tratta di una frenata momentanea o se il ciclo si sta davvero invertendo. Un’incognita simile grava anche sugli Stati Uniti: le prossime stime si avranno il 9 maggio, ma l’andamento del pil viene definito tra “modesto” e “moderato”. La Federal Reserve, che a dicembre ha portato i tassi di riferimento dall’1,25 all’1,5 per cento, segue attentamente l’andamento dei prezzi e dei tassi di mercato; al termine di due giorni di riunione, mercoledì il consiglio ha deciso soltanto di osservare da vicino i prossimi sviluppi. La Banca centrale americana guarda anche al mercato del lavoro. Questa è la grande differenza con la Bce e più in generale tra Usa e Ue. Al di là dell’Atlantico la disoccupazione è di poco superiore al 4 per cento e pompare più moneta serve solo a gonfiare la Borsa e la speculazione immobiliare. In Europa, in particolare nella zona euro, la percentuale di disoccupati è più che doppia, in gran parte per colpa dei paesi del sud. La Spagna che cresce rapidamente (2,7 per cento), ha una quota di senza lavoro del 16 per cento rispetto al 10,9 per cento dell’Italia il cui pil arranca all’1,5 per cento e potrebbe scendere all’1,2 il prossimo anno.

 

La disoccupazione americana è poco oltre il 4 per cento e pompare più moneta serve solo a gonfiare la Borsa e la speculazione immobiliare

Uno studio di Andrea Iannelli, direttore Investimenti per l’obbligazionario di Fidelity International, e di Stefan Isaacs, responsabile del Reddito fisso in M&G Investments, mostra che a cinque anni e mezzo dalla famosa frase di Draghi (“whatever it takes”, faremo tutto quel che è necessario per salvare l’euro), il valore degli asset azionari e di quelli a reddito fisso, è aumentato di circa 5 mila miliardi di euro. Il costo del debito pubblico è sceso (per l’Italia dal 7 al 2 per cento circa rispetto al pil). La ripresa è finalmente arrivata, tuttavia gli effetti sulla disoccupazione sono ancora deludenti, mentre non è stato ancora raggiunto l’obiettivo di portare l’inflazione al due per cento annuo. Le stesse valute rispecchiano questa fase di incertezza e divergenza, quindi sembra velleitario chiedere che il dollaro scenda, perché Donald Trump vuole spingere le esportazioni, e l’euro salga, perché la Germania deve smaltire gli eccessi della sua bilancia commerciale. Le Banche centrali influenzano le monete nazionali, ma il cambio resta dominato dalle forze di mercato.

 

Gli analisti sono divisi anche sulla riduzione delle tasse varata dal presidente americano. Secondo Robert Busca (Fact and Opinion Economics) saranno una gran delusione, al contrario per Diane Swonk (Grant Thorton) cominciano a funzionare e sono loro a spingere la Banca centrale ad aumentare gli interessi per contenere l’eccesso di domanda. Certo è che nessuno pensa più di allargare ancora i cordoni della borsa, anche perché la politica monetaria iper-espansiva sta già provocando effetti perversi. I paesi che meglio hanno superato il decennio della lunga crisi, dalla Svezia all’Australia, stanno adesso sperimentando le conseguenze di una bolla immobiliare che rischia di scoppiare. L’abbondanza di credito e un netto recupero del potere d’acquisto hanno fatto schizzare in alto la compravendita di alloggi e gonfiato i prezzi delle case nelle grandi città (Stoccolma spicca come una delle più care). Dall’inizio dell’anno è cominciato un calo che sembra inarrestabile.

 

Rottura o continuità? Si fa sempre più forte la spinta a chiudere con le misure eccezionali, rialzando progressivamente i tassi di interesse

Se avessero ragione alcuni guru dei mercati come Mark Mobius, nei prossimi mesi potremmo vedere una discesa del 30-40 per cento nei valori azionari; chiamarla aggiustamento tecnico sarebbe un compiacente eufemismo. Per ora prevale la volatilità che non significa necessariamente pericolo secondo Goldman Sachs e Ubs. Un invito alla cautela arriva dall’ultimo sondaggio pubblicato da Bank of America Merrill Lynch, che ha rilevato come gli investitori preferiscano rimanere con la liquidità in mano. C’è chi resta convinto che aver varcato il Rubicone espone a rischi troppo alti. James Dorne del Cato Institute, il pensatoio liberista americano, sostiene che le misure non convenzionali hanno creato una santabarbara monetaria pronta a esplodere. Il pericolo è che, a questo punto, nessuno è più in grado di disinnescare il timer. Dello stesso avviso sono influenti economisti tedeschi i quali hanno scelto come bersaglio Draghi perché si è avviato su un terreno inesplorato senza preparare una via d’uscita. La pensa così, per esempio, il mitico Hans-Werner Sinn, ex presidente dell’autorevole Istituto per le ricerche economiche. Le due principali Banche centrali, quella europea e quella americana, finora hanno pompato ottomila miliardi di dollari nel sistema economico mondiale. Gli asset nel bilancio della Bce raggiungono i quattromila miliardi, grosso modo gli stessi della Federal Reserve: quando mai verranno liquidati? Se cominciassero a venderli in modo massiccio provocherebbero una stretta colossale drenando liquidità dal mercato.

 

Il guaio è che oggi le Banche centrali non debbono più badare soltanto alla stabilità monetaria ma a quella finanziaria che riguarda tutto il sistema, un compito più difficile che cambia il mestiere del governatore. Prima sotto l’impatto della globalizzazione, poi in conseguenza della crisi, questo personaggio chiave dell’economia moderna è stato costretto a “reinventare il proprio ruolo”, spiega Domenico Lombardi del Centre for International Governance Innovation. Insieme a Lawrence Schembri della Banca del Canada, ha pubblicato un paper sulla rivista della Banca centrale canadese nel quale sottolinea che il compito principale non è più la stabilità monetaria, ma la stabilità finanziaria, il che coinvolge il funzionamento dei mercati, del sistema bancario e degli intermediari in genere, ma anche le decisioni di politica fiscale ed economica. La Banca centrale è un agente attivo e oggi conta più di una grande multinazionale o del più ricco fondo d’investimento anche perché può condizionarne in modo diretto le decisioni e, di conseguenza, i risultati. Lombardi e Schembri mettono in rilievo un aspetto spesso ignorato o comunque rimasto in secondo piano: “Assegnare solo alla Banca centrale il compito di garantire la stabilità finanziaria può provocare una insoddisfazione pubblica che erode la credibilità e, di conseguenza ha un impatto negativo, finendo per minare la stessa stabilità economica”.

 

Nelle nuove condizioni, non può funzionare nessun pilota automatico, tipo regola di Taylor (una formula matematica per decidere quando e come muovere gli interessi in rapporto all’andamento del pil), ma anche la discrezionalità limita la indipendenza dal governo e dal sistema politico in genere, riduce l’efficacia delle scelte e intacca la reputazione. Non resta che la prudenza, anche perché alla bolla s’aggiungono altri pericoli che sfuggono ai banchieri centrali: il protezionismo, le incertezze internazionali, il petrolio tornato ad essere un’arma politica quasi come negli anni Settanta, dopo un lungo periodo di predominio del mercato; proprio Trump ha messo in guardia Russia, Arabia Saudita e l’Opec nel suo insieme, perché manovrano i prezzi per colpire gli interessi nazionali americani. Lo stesso ricorso alle sanzioni su acciaio e alluminio, che sta provocando un pericoloso braccio di ferro con l’Europa, viene spiegato in nome della sicurezza nazionale. Politique d’abord e tutti sono costretti ad adeguarsi.

 

Le Banche centrali influenzano le monete nazionali, ma il cambio resta dominato dalle forze di mercato. I prezzi a Stoccolma

La politica del resto è tornata a giocare un ruolo dominante. Lo si è visto con la successione a Janet Yellen alla testa della Fed e accadrà anche alla Bce. Il mandato di Draghi scade il 31 ottobre 2019, quindi il totonomine sembra un gioco inutile, anche perché in mezzo ci sono le elezioni europee esattamente tra un anno, dalle quali dipendono a cascata molte scelte rilevanti, compreso il futuro capo della Bce. Se davvero, come si dice, Angela Merkel andrà al posto di Jean-Claude Juncker per diventare Frau Europa, la strada per Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, sarà sbarrata. Resta comunque l’azionista numero uno e non rinuncerà certo a fare da kingmaker. La procedura per l’elezione è piuttosto complessa: si parte dalla presentazione delle candidature in sede di Eurogruppo, quindi la proposta viene girata al consiglio direttivo della Bce e da qui si passa all’esame dell’Europarlamento (prima da parte della Commissione affari monetari ed economici, quindi dell’assemblea plenaria). La nomina formale, poi, spetta poi al Consiglio dei capi di stato e di governo.

 

A presiedere l’eurogruppo è stato scelto un portoghese, il socialista Mario Centeno, difficile che la Bce possa andare a un altro latino. Nella lista dei potenziali candidati si è fatto strada il finlandese Erkki Liikanen, capofila del partito del nord. Nasce come politico, è stato segretario del Partito socialdemocratico, ministro e commissario europeo, da ben 14 anni guida con alterne fortune la Banca centrale del suo paese. In una intervista al Financial Times ha confessato di essere coresponsabile degli errori più gravi commessi dalla Bce presieduta da Jean-Claude Trichet: il rialzo dei tassi d’interesse sia nel 2008 sia nel 2011 che contribuì a peggiorare la crisi finanziaria e quella dei debiti sovrani in Grecia e in Italia. La sincerità va apprezzata ma non basta a ripagare le perdite provocate ai risparmiatori; sarà difficile che il prossimo governo italiano, qualunque esso sia, possa sostenerlo. Il presidente della Bundesbank mette in guardia da ogni sbarramento per ragioni pretestuose, tanto meno si possono accettare veti basati sulla nazionalità dei candidati. Tra lui e l’odierno capo della Bce le differenze sono molte, a cominciare dall’età e dalla formazione culturale, ma li divide soprattutto una convinzione di fondo: per Draghi l’euro è ormai irreversibile, per Weidmann è una scelta politica che può sempre cambiare. L’italiano sarà sempre ricordato come il super Mario che con una frase doma i mercati. Il tedesco pensa anche a mettere in sicurezza la Buba. Il richiamo in patria dell’oro depositato a Fort Knox presso la Federal Reserve, è stato interpretato come una misura precauzionale. Va ricordato che anche la Banca d’Italia poggia su una montagna di lingotti accumulata da governatori europeisti come Guido Carli, Paolo Baffi e Carlo Azeglio Ciampi, perché non si sa mai, meglio mettere fieno in cascina. Si tratta di 2.452 tonnellate pari a 87 miliardi di euro, al 31 dicembre 2016, più 141 conferite alla Bce, la terza riserva aurea mondiale in mano di autorità nazionali, dopo Stati Uniti e Germania.

 

Non solo stabilità monetaria: la Banca centrale oggi conta più di una grande multinazionale o del più ricco fondo d’investimento

Dunque, rottura o continuità? Gli acquisti di titoli sono scesi al ritmo mensile di 30 miliardi di euro (erano 60 lo scorso anno) e così sarà sino alla fine di settembre o anche oltre se necessario. La Bce e il sistema delle Banche centrali che aderiscono all’euro, reinvestiranno il capitale rimborsato sui titoli in scadenza per un prolungato periodo di tempo dopo la conclusione degli acquisti netti e ciò contribuirà sia a garantire condizioni di liquidità favorevoli sia a un orientamento di politica monetaria adeguato, spiega la Bce. Se è così, prevarrà la continuità, eppure si fa sempre più forte la spinta a chiudere con le misure eccezionali, rialzando progressivamente i tassi di interesse. Non è solo una questione di tedeschi, di monetaristi o di keynesiani; a chiedere un rialzo non sono le dottrine economiche, ma gli interessi concreti, per esempio quelli del sistema bancario che ha una voglia e un disperato bisogno di aumentare i profitti e alleggerire le pressioni sul capitale. Bisogna stare attenti a non provocare un sussulto negativo sulla Borsa, c’è il rischio che la bolla possa scoppiare, quindi sarebbe meglio sgonfiarla con aggiustamenti progressivi. E anche questo spinge verso un cambiamento.

 

Sotto la cautela di queste settimane, insomma, cova un mutamento di rotta che sarà guidato ancora una volta dalla Fed. La bonanza monetaria sta finendo, l’ombrello si chiude, il salvagente si sgonfia. Chi, come l’Italia, non ha riparato il tetto, rischia di finire allagato. Il suo ruolo istituzionale impedisce a Draghi di nominare un singolo paese dell’euro, costringendolo a parlare urbi et orbi. Con qualche eccezione. Un anno fa, ricevendo nel castello di Santena il premio Cavour, ha ricordato che l’Italia ha avuto bisogno di alleanze europee per conquistare la propria unità. E ha ancora bisogno dell’Europa. Tuttavia, ha sottolineato, “a Cavour fu sempre chiaro che il rapporto con l’Europa sarebbe stato fertile se il paese avesse appreso a progredire e a crescere anche da solo. Altrimenti, la sua stessa indipendenza sarebbe stata compromessa”. Nel suo discorso, il presidente della Bce, riponendo il manto ufficiale che a Francoforte gli impedisce di entrare nei problemi di un singolo stato, ha parlato di politica italiana, ha segnalato la sua preferenza per sistemi elettorali dai quali escano maggioranze e governi stabili, notando la resistenza ad adottare una forma di governo maggioritaria. “Ancora pochi anni fa — ha ricordato Draghi — il connubio cavouriano è stato indicato come segno originario di una difficoltà strutturale del paese a convivere con una competizione politica fra schieramenti contrapposti nel quadro dell’alternanza al governo, se non addirittura come matrice primigenia di un segno trasformistico ricorrente nella storia italiana”. Chi non crede alla necessità di riforme istituzionali dovrebbe rileggere quel discorso. E poi dicono che i banchieri centrali non fanno politica, almeno nel senso più alto che spetta ancora alla politica.