Foto LaPresse

L'iperproduttività cinese e la trappola delle regole internazionali

Michele Geraci*

Le economie di scala permettono a Pechino di esportare a prezzi stracciati, ma i numeri e le teorie economiche parlano chiaro: per far crescere il pil serve il libero mercato

La recente escalation di dazi tra Cina e Stati Uniti mette in evidenza una questione fondamentale: l’Organizzazione mondiale del Commercio non è stata istituita né ha oggi gli strumenti per gestire un’economia come la Cina, che produce la metà di tutto ciò che viene consumato al mondo. Secondo le regole dell’Omc, i dazi possono venire imposti se un paese fa del dumping dei propri prodotti sui mercati internazionali, cioè se i prezzi di esportazione sono minori rispetto ai prezzi in vigore nei mercati internazionali. Ma il malinteso tra America e Cina nasce perché la Cina, che ha scala produttiva di gran lunga superiore ad altri paesi, ritiene che i propri prodotti abbiano costi più bassi non perché fa dumping, ma perché ha economie di scala che altri paesi non hanno, e quindi ritiene di essere lei “il mercato di riferimento”, e considera ingiusta qualsiasi misura protezionistica rivolta ai propri prodotti.

  

In aggiunta, la Cina ritiene che, come paese emergente, abbia il diritto a imporre dazi sulle importazioni provenienti dall’occidente, più di quanto l’occidente abbia diritto a farlo sui prodotti cinesi. Oggi la Cina ha dazi medi di circa il 10 per cento, l’Unione europea del 5 per cento e gli Stati Uniti di poco più del 3 per cento. Questi numeri non possono – giustamente – andar giù al presidente americano Donald Trump. Guardando avanti, la Cina, con il suo ben dettagliato piano China Manufacturing 2025, con cui il nostro modesto Industria 4.0 ha poco in comune, non solo produrrà prodotti di sempre maggiore qualità, ma raggiungerà economie di scala che abbasseranno ulteriormente i costi medi di produzione.

  

Il paradosso è che la Cina materializza quasi verbatim i suggerimenti di Paul Krugman, uno dei più grandi sostenitori del libero mercato, che postula che i paesi non commerciano perché sono più efficienti relativamente l’uno dell’altro nel produrre un certo prodotto – così come sosteneva Ricardo nel 1800 – ma perché ottengono un vantaggio competitivo dovuto alle grandi economie di scala.

  

L’impatto di tutto ciò per noi qual è? Mentre il modello di Ricardo lasciava qualche speranza all’Italia e all’Europa di poter esportare qualcosa in Cina – quello che riuscivamo a far relativamente meglio della Cina – l’approccio di Krugman sembra condannare l’Italia a una posizione secondaria. Anche cercare una maggiore integrazione europea per meglio far fronte comune alla Cina non tiene ben conto che anche mettendo insieme i ventotto paesi, la scala produttiva europea farebbe solo il solletico alla Cina (la Cina produce 820 milioni di tonnellate di acciaio contro le 160 della Eu e le 23 dell’Italia). Inoltre manca, in ogni caso, la solidarietà reciproca tra i vari paesi, che ancora si ritengono concorrenti l’uno dell’altro, come il recente caso Embraco dimostra.

  

E’ in questo contesto che Trump rimette in discussione molti degli accordi commerciali, dal Nafta all’Organizzazione mondiale del Commercio. Non so se fa bene o meno, ma i numeri e le teorie economiche parlano chiaro: se l’obiettivo è far salire il pil di un paese anche a scapito di crescenti disuguaglianze, allora bisogna insistere sul libero mercato. Se invece la priorità di un governo è proteggere le fasce più deboli, garantire un lavoro a quanti più possibili cittadini, anche a scapito di una minore crescita del pil nazionale, allora i dazi, mirati e temporanei, sono la risposta.

   

*Direttore del China Programm al Global Policy Institute, Londra e docente alla Nottingham University di Ningbo, Cina

Di più su questi argomenti: