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Perché Airbnb è la realizzazione dell'utopia cosmopolita

Francesco Maselli

Se il motto “a casa propria nel mondo intero” non fosse soltanto uno slogan di marketing ma un adagio filosofico?

Airbnb è una piattaforma conosciuta per il suo grande potenziale commerciale, per aver permesso a tutti di trasformare casa propria in un albergo e per aver fatto impennare i prezzi degli affitti nelle grandi città: è più conveniente affittare una seconda proprietà a notte che al mese, come ben sanno i proprietari di case di Parigi, Londra e Barcellona. Ma se, parlando dell’app californiana, lasciassimo un momento da parte il prodotto e ci concentrassimo sul messaggio che trasmette? Se Airbnb non fosse altro che una nuova maniera di abitare il mondo e il suo motto “a casa propria nel mondo intero” non fosse soltanto uno slogan di marketing ma un adagio filosofico? È quanto si chiede Karine Safa nell’ultimo numero di “Time to Philo”, la newsletter curata da Gaspard Koenig, filosofo liberale francese, che analizza ogni settimana un fatto dell’attualità attraverso le lenti della filosofia.

 

Abitare non ha lo stesso significato di alloggiare. I due verbi sono diversi, così come diverso è il loro significato. Martin Heidegger, nella sua una conferenza Costruire, abitare, pensare, spiega che abitare non indica soltanto l’occupazione di luoghi che proteggono l’uomo dall’ambiente circostante e creano la distinzione fondamentale tra pubblico e privato, ma indica, in senso più ampio, “il soggiorno dell’uomo sulla terra” e che, corollario, “la vera crisi dell’abitazione non consiste nella mancanza di alloggi [...] ma risiede nel fatto che i mortali cercano l’abitazione in sé, quando invece dovrebbero preoccuparsi, in primo luogo, di apprendere ad abitare”. Un concetto che sarà poi sviluppato da Emmanuel Lévinas nel suo libro più famoso, Totalità e infinito: “Il ruolo privilegiato della casa non consiste nell’essere il fine dell’attività umana, ma a esserne la condizione e, in questo senso, l’inizio”. Quando Lévinas e Heidegger scrivono, tuttavia, la globalizzazione non ha ancora sconvolto le categorie dell’abitare, sia in termini pratici sia in termini filosofici.

 

E quindi, per comprendere meglio il fenomeno Airbnb, continua Karine Safa, è utile farsi guidare dalle riflessioni di un filosofo contemporaneo, più adatto a interpretare la nostra società, liquida e informale. “Il vero spazio, oggi, è quello interiore, sconnesso da ogni legame materiale”, ragiona Safa. Benoit Goetz, nel suo saggio “La Dislocation”, non cita direttamente l’app californiana, ma quando descrive l’abitante contemporaneo coglie le implicazioni sociali di Airbnb e introduce il concetto di “in-abitante”: “L’in-abitante è un affittuario perpetuo [...] e lo è in maniera ancora più precaria, essendo qui ma anche altrove,
rimanendo su un’instabilità senza appiglio né fondo”. Un’accusa alla globalizzazione, che ci renderebbe degli abitanti globalizzati e senza radici, destinati a vivere nell’instabilità?

 

Al contrario, risponde Karine Safa. L’uomo ha bisogno di radici e, per quanto oggi abbia la possibilità di spostarsi facilmente e rapidamente, tende sempre ad abitare i luoghi in cui decide di stabilirsi. La dispersione moderna “non è una perdizione ma una maniera più densa di esistere”. Vivere New York o Parigi in casa altrui, percepire il suo vissuto, le sue abitudini, i prodotti del quartiere e gli stereotipi dei suoi vicini di casa è un’esperienza diversa rispetto a un soggiorno in una camera d’albergo. E’ più ricca, più sana, persino più umana se vogliamo. E molto spesso più economica. Se questo è vero, allo stesso tempo è necessario ripensare il nostro rapporto con i luoghi nei quali viviamo. Bisogna farlo dal punto di vista concettuale, ma anche materiale, per evitare di sfruttare l’ambiente in modo insostenibile: “Abitare il mondo diventa quindi non soltanto un posizionamento filosofico ma una questione politica e un’ingiunzione utopica”, conclude Safa.

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