Marco Bentivogli, 47 anni di Conegliano, dal novembre 2014 alla guida della Fim Cisl (foto LaPresse)

Fim Cisl, il sindacato col quid

Marianna Rizzini

Ritratto di Marco Bentivogli, il segretario generale che non sopporta la “retorica novecentesca” da lotta di classe

E' un sindacalista. Ma, a seconda dei casi, parla come un riformista ruvido genere Carlo Calenda (ministro dello Sviluppo), come Papa Francesco che si infervora sul tema “lavoro libero, partecipativo, creativo e solidale”, come un liberalizzatore che in vita sua può aver apprezzato le lenzuolate del Pier Luigi Bersani d’antan ma anche qualche ricerca dell’Istituto “Bruno Leoni”, e infine come un tecnofilo in lotta contro i tecnofobi della Silicon Valley, quelli che prima hanno fatto la rivoluzione digitale e ora temono (per vezzo?) i robot. E’ un sindacalista, Marco Bentivogli, quarantesettenne segretario della Fim Cisl ora finito sotto scorta per minacce del tipo “servo dei padroni devi morire” o “complice di chi ha ucciso i bambini a Taranto” o “ti gambizziamo e ti mettiamo a testa in giù” o “sei per il lavoro gratis degli studenti nell’alternanza scuola-lavoro, crepa”. E però non ha nulla, Bentivogli, nell’eloquio e nell’aspetto, che possa ricordare l’iconografia da Cipputi o da Mimì Metallurgico che immediatamente si associa, nell’immaginario collettivo, alla parola “metalmeccanico”. E’ stato chiamato “l’anti-Landini” (nel senso di Maurizio, ex segretario generale Fiom-Cgil molto presente nei talk-show e nei consessi para-politici delle sinistre speranzose), per via della sua apparente non-mediaticità. Tuttavia Bentivogli è mediatico a modo suo: va in tv centellinando le presenze, ha costruito una strategia di comunicazione organizzativa sindacale con il digitale, manda lettere aperte ai giornali, ha scritto un libro-pamphlet-programma (“Abbiamo rovinato l’Italia? Perché non si può fare a meno del sindacato”, ed. Castelvecchi, già alla seconda ristampa) ed è stato, insieme a Massimo Recalcati, l’autore di uno degli interventi più applauditi alla Leopolda sulla riforma costituzionale, come pure due mesi fa a Cagliari alla Settimana sociale dei cattolici. Rilascia interviste su argomenti non strettamente sindacali: la felicità e l’infelicità sociale, le blockchain, l’istruzione “non tecnica”, i salotti “non lungimiranti”, l’evoluzione dei consumi in Corea del Sud, il voto col portafoglio, il divario generazionale preso dal lato del fallimento umano e non soltanto pensionistico, il futuro da non buttare nel calderone sociologico declinista a prescindere. Quando affronta gli argomenti sindacali, invece, Bentivogli la prende spesso da angolazioni impreviste per la narrazione metalmeccanica tradizionale, motivo per cui fa strabuzzare gli occhi ai puristi.

 

E' un sindacalista, ma parla, a seconda dei casi, come Calenda, come Papa Francesco sul lavoro, come un iper-liberalizzatore

Fatto sta che alcune tra le vertenze più difficili degli ultimi anni – Ilva, ex Alcoa – l’hanno visto protagonista delle trattative al grido di “de-ideologizzare” il dibattito e “fare gioco di squadra” (con aziende e governi, se è il caso, nell’interesse di tutti). E anche se in trattativa è intransigente sul merito e si descrive come uno che “non lascia correre” e che “era in prima fila nei cortei più duri e in piazza quando altri erano in tv”, Bentivogli è percepito come un capo sindacale sui generis: combatte ma sfidando gli iscritti a non cadere nei due opposti trappoloni del populismo, da un lato, e delle ideologie che vogliono “inscatolare il futuro in categorie novecentesche”, dall’altro. Non nasconde le sue idee e anzi, dopo averle scritte nel libro suddetto, le ha rilanciate in un “Manifesto per una rivoluzione sindacale” (pubblicato anche da questo giornale), sintetizzabile nel sottotitolo: “Facciamo presto - Vademecum su come il sindacato può muovere il paese e non condannarsi all’irrilevanza delle parole vuote”. E in quel manifesto, in cui prendeva di mira tic lessicali che si trasformano in tic politici, scriveva, tanto per cominciare, che le “espressioni del tipo ‘macelleria sociale’, ‘compromesso al ribasso’, ‘deportazioni’, e volantini contro la ‘schiavitù’ a firma dei pubblici dipendenti romani… sono un’ipocrita, de-responsabilizzante kermesse di retoriche morte a spese altrui… il nostro sistema paese è sfavorevole alle imprese e al lavoro, per l’eccesso di burocrazia, per un sistema giudiziario lento e farraginoso, per un costo dell’energia del 30 per cento superiore alla media europea, per un sistema creditizio che preferisce la rendita rispetto all’impresa. Tutti temi che non appassionano né i media né il mondo politico, che preferisce i simboli, i totem – l’articolo 18, oppure gli esodati, i voucher – alla risoluzione dei problemi, accrescendo la popolazione dei nuovi ‘analfabeti funzionali’, prigionieri delle fake news, che non sanno più distinguere tra verità e balle colossali”. E ogni volta che Bentivogli dice o scrive cose del genere c’è chi, nell’ambiente politico messo da Bentivogli sotto accusa, pensa che il capo della Fim Cisl abbia nel suo futuro, prima o poi – più prima che poi – un incarico politicamente alto (“tipo un ministero di industria o lavoro di un fantomatico governo di larghe intese”, dice un osservatore di smottamenti pre-elettorali). Gianni Minoli, in un faccia a faccia radiofonico, alcuni mesi fa, lo accreditava come segretario ideale del Pd (perché “più legato al lavoro”), e addirittura c’è chi crede che Bentivogli, chissà – ma questa è fantapolitica – “finirà per fondare un partito prima di rifondare il sindacato”, vista l’irriformabilità di quest’ultimo.

 

Sotto scorta, ha ricevuto minacce di morte per le sue posizioni su Ilva, ex Alcoa, alternanza scuola-lavoro

Al momento Bentivogli dice di vedere nel suo orizzonte solo la Fim, dove “ha tanto da fare”. E, in vista della campagna elettorale, dice che gli piacerebbe vedere forze politiche che impostino la loro azione “immaginando di recuperare lo spirito di frontiera” e sfidando “l’elettorato a scegliere la terra di mezzo tra chi si trincera dietro categorie ideologiche vetuste che ormai fanno quasi tenerezza, nella loro velleità, e i completi analfabeti populisti che coccolano l’insoddisfazione”. I futuri candidati premier, dice, “non devono aver paura di presentare un’agenda di riforme, sapendo che le riforme vere non accontentano tutti, e che se accontentano tutti sono soltanto acqua e zucchero per il consociativismo italiano nell’Italia in cui pare abbiano sempre tutti ragione”. Sulla scia dei “grandi vecchi del sindacato che insegnavano la massima: ‘chi dice sempre no è uguale a chi dice sempre sì’”, Bentivogli vorrebbe “si sgretolasse il blocco italiano del ‘no a tutto’”. Non a caso il segretario generale Fim Cisl non si è mai pentito del suo Sì al referendum del 4 dicembre 2016: “Fosse passato il Sì, senza il doppione del Senato, altro che ius soli potremmo avere”. In modo speculare, rifugge dalla “retorica sindacale: quando sento dire che è tutta colpa della globalizzazione mi incazzo”.

 

Fosse lui in campagna elettorale, metterebbe al primo punto “tre snodi decisivi. Da come li affronti dipende il futuro. E i tre snodi sono l’innovazione tecnologica, l’invecchiamento, l’immigrazione. Anche la Germania deve affrontarli, ma lì si fa politica su questi temi, da noi invece li si liquida con tre o quattro slogan populisti per spaventare le persone. Ma io penso si possa mettere insieme il pezzo di Italia che vuole costruire e modernizzarsi. Però, come accade nelle vertenze sindacali, per trovare la soluzione devi prima riconoscere l’altro come tuo interlocutore. Spesso non ci si riesce, forse anche perché il mondo dell’informazione ha bisogno di creare personaggi e poi farli scontrare come marionette. Dici Taranto? Allora il titolo è: ‘Scontro Michele Emiliano-Carlo Calenda’, quando in realtà lo scontro è tra Michele Emiliano e il buonsenso. Anche nel sindacato è così. Si sa però che gli antagonisti, i personaggi-simbolo, sono i più innocui per l’imprenditore. Se si sgombra il campo da questo automatismo, si vede che il vero problema è un altro: l’Italia deve diventare un habitat favorevole alla creazione di imprese sane, legali e sostenibili. A proposito del Piano Calenda per lo sviluppo, ho sempre detto che si può rilanciare il paese soltanto in un territorio-ecosistema, dove la città sia smart city e la mobilità, l’energia e la rappresentanza siano 4.0, cioè intelligenti e sostenibili”.

 

C'è chi lo vede già ministro in un futuro governo di coalizione o "segretario del Pd" (Gianni Minoli)

Per diventare “il Calenda del sindacato”, come lo chiamano ufficiosamente alcuni cronisti economici, o “il nuovo Carniti”, come lo definiscono alcuni insider, Bentivogli ha fatto tutta la trafila all’interno della Fim Cisl, ma partendo in modo atipico fuori dalla Fim Cisl, e cioè addentrandosi nella giungla di lavori precarissimi in quel di Montesacro, quartiere romano dove la sua famiglia ha abitato dopo una parentesi a Conegliano Veneto (dove il futuro sindacalista è nato). Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, quindi, Bentivogli ha trovato impiego presso alcune ditte di consegne a domicilio (le Foodora ante litteram – che allora erano i pony express e poi i panini da McDonald’s), e anche il manovale in cantiere. Facendo già volontariato, a un certo punto ha accettato l’offerta di occuparsi di giovani e politiche sociali giovanili. Da lì i primi contatti con la Fim. Nel giro di poco, ne venne fuori una sorta di network dei giovani metalmeccanici con mille delegati, che portò al risultato di “condizionare” il contratto collettivo del 1998 su riduzione orari, permessi, scatti. “Era ora che il sindacato diventasse un luogo pubblico di accoglimento delle aspirazioni dei giovani”, dice Bentivogli oggi, sapendo che, come allora, in Italia c’è una questione generazionale già a partire dagli iscritti: “Già a quel tempo c’erano studi che riportavano dati allarmanti. Erano anni di riflusso: i giovani dovevi andarteli a cercare, non era più come nei Settanta, quando, dopo il ’68, i ragazzi si organizzavano per conquistare in sindacato. E però i post-sessantottini, una volta arrivati al potere, e dopo aver buttato giù la porta, sono diventati i più impermeabili rispetto alle generazioni successive e precedenti. Allora cercammo di correre ai ripari. La priorità numero uno, allora come oggi, era ringiovanire – il sindacato e il paese”. E’ in quel periodo che Bentivogli comincia a fare il sindacalista con la valigia: prima a Bologna, poi nelle Marche. Infine torna a Roma, per entrare nella segreteria nazionale. Ed è proprio sui giovani che oggi Bentivogli si trova nella posizione di chi, sull’alternanza scuola-lavoro, non è sulla linea degli studenti scesi in piazza. Quest’estate, sulla Stampa, l’aveva preannunciato: “… Leggo di precariato, sfruttamento. Siamo seri: scuola e aziende finalmente iniziano a parlarsi. Con tutte le sue imperfezioni è una esperienza da estendere” (poi è andata come andata, con Bentivogli, come si è detto, minacciato di morte anche per via di questo tipo di posizione). Il tema è più ampio, e coinvolge nel suo insieme i diritti. “La sinistra tradizionale sull’analisi delle diseguaglianze ha perso la bussola”, dice il segretario Fim Cisl: “Non si può più parlare soltanto di diseguaglianza nei salari. La diseguaglianza oggi ha più facce, per esempio io credo sia molto grave la diseguaglianza di accesso al sapere di qualità. La mobilità è falsata. L’accesso alle professioni avviene sempre nel quadro di un’onnipresente gerontocrazia. Si vorrebbe che i giovani si accomodassero nella nicchia dei replicanti pazienti che aspettano il passaggio di testimone, facendo i pappagalli, di chi ha pretesa di eternità. E purtroppo, in questo disegno, il più grande alleato è l’apatia stessa dei giovani, il loro disincanto, il ritornello di auto-convincimento che porta un giovane a dire e a pensare, per esempio, ‘non si arriverà mai alla pensione’. Ben venga allora favorire l’aggregazione, le organizzazioni giovanili, basta che non ci si rituffi in riflessi condizionati ideologici vecchi, come è accaduto appunto per l’alternanza scuola-lavoro”. E però, allo stesso tempo, Bentivogli non vuole sentirsi dire “dov’era il sindacato quando si è deciso tutto questo?”, quando cioè “i lavoratori che oggi prendono 1.500 euro netti si accorgeranno che dopo 45 anni di lavoro avranno 650 euro di pensione” e allora “si rischierà il sommovimento sociale, oltre, ovviamente, a vedere decuplicare la fascia di chi vive in povertà”.

 

Contro quelli che si nascondono dietro a slogan come "macelleria sociale", contro i "tecnofobi dei salotti" che temono i robot

Forte del convincimento “i robot non rubano lavoro”, l’uomo che si presenta in piazza con il maglione blu al posto delle felpe rosse di Landini, ha più volte parlato delle “blockchain”, termine avveniristico che in alcuni consessi più tradizionalmente sindacali è parso astruso e vagamente casaleggiano (nel senso dei mondi utopico-distopici immaginati, a suo tempo, da Casaleggio senior) e che invece per Bentivogli è uno dei punti fermi del futuro: “Le blockchain sono registri digitali diffusi, libri mastri aperti, database condivisi, sulla base di protocolli basati su una rete tra pari, programmabili, basati sulla crittografia e dunque abbastanza sicuri, dove l’affidabilità contabile va oltre il controllo del singolo e può essere analizzata e condivisa da tutti. Hanno potenzialità infinite nelle relazioni tra esseri umani, tra macchine, tra entrambi. Si candidano a essere una nuova infrastruttura economico-sociale”. A chi non vuol sentire, il sindacalista atipico dice: “Dovete uscire dal Novecento” L’ultima volta, l’ha detto al “salotto buono” di Cernobbio, dove era stato presentato uno studio critico sui robot potenzialmente capaci di togliere posizioni lavorative agli umani: “Alla platea a porte chiuse di Cernobbio bisognerebbe ricordare che persino la diffusione della tv a colori, tecnologia già disponibile dal 1967, venne ritardata per quindici anni. Un grande quotidiano nazionale, l’Unità, titolava ‘La tv a colori è caldeggiata dagli industriali e dalla Rai’, per demonizzarla. La questione unì liberali, repubblicani, sinistra radicale e socialdemocratica… La Cgil scrisse una nota: ‘L’adozione della tv a colori si muove in senso del tutto opposto alle esigenze del nostro paese’. Fermare il progresso è velleitario oltreché inutile. Vogliamo essere il paese dove si perdono più posti di lavoro o quello dove si costruisce tanto nuovo lavoro?”. (La domanda, ancora valida, Bentivogli la girerebbe così com’è ai candidati premier).

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.