Foto LaPresse/Mourad Balti Touati

Contro la folle sinistra che sceglie Di Maio

Adriano Sofri

Discutiamo pure su chi sia il meno peggio, ma sia chiaro che il peggio è il M5s

Ogni tanto sento qualcuno dire che è stanco di votare “il meno peggio”: “Questa volta non lo farò più”. Me ne stupisco e preoccupo, perché sono persuaso che il voto al “meno peggio” sia la traduzione elettorale della definizione della democrazia come il peggior sistema di governo a parte tutti gli altri. Cioè un’idea, se non volete dire pessimistica, almeno misurata nelle aspettative investite nella pubblica amministrazione. L’assolutismo politico è affare tragico della rivoluzione o della controrivoluzione, e in subordine degli imbecilli. In altri ambiti, sia della vita privata che della partecipazione sociale, ci si può proporre di perseguire il bene, quello che si crede il bene. La preferenza per il “meno peggio” mette al riparo dalle delusioni troppo dolorose e dal loro risvolto, il disgusto per il voto. Per questo stato d’animo, che non è demoralizzato se non alla lettera, perché non pretende una moralizzazione assoluta della scelta di voto, il “meno peggio” non è una opzione contingente ma una specie di filosofia relativa e durevole. La contraddizione però sorge e scuote l’assicurazione fornita dal ragionevole scetticismo elettorale quando ci si scopre incerti perfino nel riconoscimento di che cos’è il “meno peggio”. E’ il caso attuale. Vi rientra la domandina: “Per chi voteresti fra Berlusconi e Di Maio?”, che ha fatto tanto rumore. L’ipotesi del ballottaggio fra la padella e la brace è tuttavia autorizzata: la novità è che nello schieramento, chiamiamolo così, che va dal centrosinistra alla sinistra, chiamiamole così, qualcuno ha fatto intendere, scopertamente, come nel caso per me sconcertante di Bersani, o più ambiguamente, di preferire Di Maio non a Berlusconi (e Salvini) ma al Pd. Io (che non conto niente, e sono privo del diritto di voto) metto nel peggio da sventare il Movimento 5 stelle. Penso, molto sommariamente, che quel movimento abbia degradato una delle esperienze più nobili dei movimenti popolari e operai, l’autodidattismo, che era un amore per il sapere dal quale i più erano esclusi per una discriminazione sociale, e lo perseguivano al costo di enormi sacrifici attraverso società di educazione, studi serali, partiti, sindacati, “università popolari”. Che erano allo stesso tempo occasioni preziose per chi avendo avuto il privilegio degli studi volesse metterli alla prova del sapere del lavoro e dell’intelligenza suscitata dall’amalgama sociale. L’autodidattismo dei 5 stelle, in questo esemplari di una delle due possibili evoluzioni del tempo presente, è viceversa pieno dell’arroganza che deriva dalla sostituzione del sapere con la rete, serbatoio di tesori e di scempiaggini. 

  

Nel loro caso, di scempiaggini e superficialità. Era la prima impressione dei 5 stelle, è stata confermata a dismisura dagli anni trascorsi e dalla prevalenza del cretino, pur combattuta, al loro interno. Forse solo per abitudine, o per vecchiaia, perché le persone del Pd e della sinistra sono ancora largamente quelle che ho conosciuto e di cui non di rado sono stato amico, benché ne veda un immeschinimento pubblico pressoché irresistito, continuo a cercare là il mio meno peggio. Lo cerco nella disposizione del Pd a proporsi una collaborazione, se non un’amicizia, con il grosso (parola grossa, lo so) dello schieramento alla sua sinistra, e viceversa, nella disposizione della sinistra a cercare una collaborazione col Pd. E nella disposizione della lista europeista di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova ad accordarsi col Pd, e viceversa. (Vorrei che facessero altrettanto i radicali dell’altra metà, convinti che non presentarsi alle elezioni sia un principio). Senza di che l’alternativa si riduce alla domanda truccata: “Chi sceglieresti fra Berlusconi e Di Maio?” Non credo di cedere a un pregiudizio o a un sentimento, un risentimento, senile: guardo ai governi degli ultimi anni con pieno disincanto, e tuttavia mi dico che i governi di altre maggioranze avrebbero fatto peggio, e probabilmente molto peggio.

      

Ho una postilla all’argomento del meno peggio, e riguarda la professione politica. Non occorre che dichiari il mio rispetto per la professione politica, reso a sua volta rispettabile dal fatto che non le appartengo e non ho alcuna ambizione di appartenerle – la sola idea mi sembra buffa. Dunque mi sento privatamente disinteressato, benché personalmente interessatissimo. Quando Max Weber parlava del Beruf politico, che era insieme professione e vocazione, aveva a che fare con un mondo in cui i due concetti potevano tenersi. Le famigerate ideologie erano a loro volta capaci di richiedere (anche di esigere ferocemente) il disinteresse e l’abnegazione dei dirigenti e dei militanti politici. Oggi la professione politica ha visto ridursi fino a scomparire la parte della vocazione e crescere a dismisura quella riservata al mestiere: rango, lunario. Che si sia giovani e all’arrembaggio o provati e anche francamente vecchi, un interesse personale alla conservazione si aggiunge e molto spesso prevale sugli ideali politici, quando pure ci siano. (Nelle altre professioni, a partire dalle più ipocrite, il giornalismo o la magistratura, succede almeno altrettanto, ma quelle sono il retrobottega, e la politica è la bottega e la vetrina). Nei giorni scorsi ho letto titoli come: “Concorso per preside, verso le 35 mila domande per 2.425 posti: uno su 15 potrà coronare il sogno” (Repubblica), e “In 10 mila per il posto in Parlamento M5s, un iscritto su 13 tenta la corsa” (Corriere). Temo che, meccanismi di selezione a parte, qualcosa di simile si potrebbe leggere per tutto l’arco delle forze politiche, sinistra compresa. Il disinteresse è una virtù difficile da trovare, e in politica non è nemmeno detto che sia una virtù, quando diventi oltranzista: ma senza una dose di disinteresse la politica è fottuta e noi con lei. Il disinteresse è in realtà un interesse personale differito, nel tempo e nello spazio: sul nostro prossimo nel Niger e in Myanmar, sui nostri figli e nipoti. Infatti noi non facciamo più figli, direte, e ci vantiamo di non votare lo ius soli. Già. Infatti occorre una buona dose di idealismo per impegnarsi a votare, e votare il meno peggio.

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