Un incontro al ministero dello Sviluppo economico tra governo e sindacati sul futuro dell'Ilva (foto LaPresse)

Scintille di buon senso. Anche nel sindacato qualcosa sta cambiando

Claudio Cerasa

Il no al ricorso al Tar sull’Ilva, la svolta nei rapporti con Fca, la presa di distanza dal grillismo. Una campagna elettorale con i sindacati che appaiono più responsabili di alcuni partiti

Forse pecchiamo di ottimismo, o forse no. Ma in questa strana e non banale campagna elettorale c’è una novità sorprendente che riguarda un mondo che di solito alla vigilia delle elezioni mostra il peggio di sé: il sindacato. Non è facile parlare in positivo della categoria del sindacato specie quando piccoli sindacati tengono regolarmente in ostaggio le città sul finire della settimana bloccando mezzi pubblici e trasporti locali. Eppure per almeno quattro ragioni a cinquanta giorni dalle elezioni non si può non notare che qualcosa sta cambiando e che forse anche nel sindacato inizia a esserci una consapevolezza latente di un fatto elementare: vivere nel 2018 come se fossimo ancora nel 1968 non ne vale più la pena. Proviamo a mettere insieme i puntini e poi tentiamo di fare qualche valutazione. La prima scintilla di buon senso si è manifestata alla fine dello scorso anno, tra novembre e dicembre, quando contro la sciagurata idea di Michele Emiliano di presentare un ricorso al Tar contro il decreto ministeriale sul piano ambientale disposto dal governo in sostegno del piano industriale dei nuovi soci dell’acciaieria dell’Ilva non si è levato solo il grido coraggioso del ministro Carlo Calenda ma anche quello, a sorpresa, di Maurizio Landini. 

 

Nonostante la sua distanza dalle idee del ministro dello Sviluppo, il capopopolo della Fiom ha dovuto riconoscere che il ricorso al Tar è una follia e che bloccare un’azienda per motivi ideologici è un lusso che un paese come l’Italia non si può permettere: “Noi chiediamo il ritiro del ricorso al Tar fatto dalla Regione Puglia perché lo consideriamo inopportuno e sbagliato in questa fase. Contemporaneamente chiediamo di non congelare nessuna trattativa perché ci sono tavoli fissati che devono andare avanti”. Pochi giorni dopo, a ruota di Landini, ecco Susanna Camusso: “E’ legittimo pensare che il piano ambientale per l’Ilva di Taranto non sia sufficiente ma è stato conquistato un tavolo di confronto con il governo e quello è il luogo per discutere. Diciamo al presidente della Regione Puglia che quel ricorso non va bene e diciamo al ministro Calenda di non sospendere il tavolo”.

 

Su Ilva tutti d’accordo. Niente stupidaggini. Niente follie. Ci sono in ballo diecimila posti di lavoro, 5,3 miliardi di euro di investimenti, un punto di pil italiano che si gioca sull’acciaio di Taranto e dunque ideologie sì, follie no. Passano i giorni, da Taranto si arriva in Sardegna e anche lì una piccola buona notizia: lo stabilimento di produzione e lavorazione di alluminio nel Sulcis, chiuso dal 2012 da quando l’americana Alcoa ha deciso di vendere lasciando un migliaio di lavoratori a sperare in ciclici rinnovi degli ammortizzatori, riceve un’offerta da una società svizzera (a guida italiana) di nome Sider Alloys e grazie all’impegno tra le varie parti sociali, le istituzioni e il governo si riesce a fare sistema e il Sulcis può ripartire (il motore di tutto, nel sindacato, in questo caso, ma forse non solo in questo, è Marco Bentivogli, segretario della Fim Cisl, ma anche la Cgil ha avuto un ruolo propositivo nella partita). Passano le settimane e si arriva in campagna elettorale e a un mese e mezzo dal voto c’è una prima sorpresa: nonostante le posizioni coincidenti su molti fronti (dalla Buona scuola, al Jobs Act, fino alla riforma Fornero) i sindacati si sono tenuti distanti dal grillismo. Susanna Camusso, è notizia della scorsa settimana, ha invitato da segretario della Cgil Pietro Grasso a sostenere il Pd sia in Lombardia sia nel Lazio. E sempre a puntellare il candidato premier di Liberi e Uguali è arrivata dalla Cisl il segretario Annamaria Furlan, che ha invitato i partiti a smetterla di inseguire il populismo: “Leggo che il bilancio di queste promesse elettorali – ha detto Furlan – si aggira sui 200 miliardi di euro. E’ evidente che molte di queste promesse, di fatto, saranno irrealizzabili. Credo, invece, che vadano messe a fuoco due o tre cose su cui davvero il paese ha bisogno di muoversi. Il tema della crescita e dello sviluppo è collegato anche a questo”.

 

Si scorrono le agenzie, passano i giorni e si arriva a gennaio, al dodici gennaio, e senza coltelli tra i denti sempre la Fiom, dopo aver sciaguratamente provato a sabotare anni fa il referendum con cui Sergio Marchionne ha rivoluzionato la Fiat, chiede di sedersi a un tavolo con il governo e con Fca per parlare di futuri. E la Fiom che sceglie di lanciare una proposta e non una provocazione a Marchionne è una notizia mica male anche se in linea con una svolta dello stesso Landini che su Marchionne negli ultimi tempi ha rivisto la sua posizione (“Nessuno nega che la Fiat, prima dell’arrivo di Sergio Marchionne, fosse a rischio di fallimento e oggi no. E nessuno vuole negare le qualità finanziarie del manager. Di tutto questo noi siamo contenti”, ha detto per la prima volta Landini nel marzo 2016). E su Fca oggi la svolta della Fiom suona così: “Non è più tempo di aspettare. In questi anni la Fiom con i lavoratori ha raggiunto con Fca le intese utili a salvaguardare l’occupazione, ma ora è tempo di andare oltre. Chiediamo un confronto ad azienda e governo, un tavolo congiunto per mettere in atto tutte le iniziative utili alla realizzazione di un piano che si basi sull’innovazione e sull’occupazione”. Lo stesso, se ci pensiamo un attimo, vale anche per Confindustria. Nel 2013, in piena era Squinzi, il sindacato degli imprenditori scelse di costruire con la Cgil di Susanna Camusso una pace sociale finalizzata all’immobilismo che sfociò nelle molte apparizioni che il capo di Confindustria e il capo della Cgil fecero in giro per l’Italia l’uno sotto il braccio dell’altra. Oggi, nel 2018, Confindustria ha scelto di schierarsi su diversi temi, dal Jobs Act alla riforma Fornero, per non parlare del 2017 sul referendum costituzionale, su un fronte del tutto opposto a quello della Cgil e della Fiom e paradossalmente la competizione tra i due sindacati ha avuto l’effetto non di accrescere la tensione ideologica ma di alimentare un confronto concreto su diversi fronti di politica industriale (il sogno vero sarebbe quello di vedere la Cgil schierata a fianco della Confindustria nella prossima legislatura a sostegno dell’unica vera battaglia industriale che potrebbe aiutare il paese a correre ancora più veloce: una spinta maggiore verso una contrattazione di secondo livello).

 

A dire il vero i tiepidi segnali di una svolta sindacale – molti dei quali arrivati dopo l’ennesimo suicidio politico portato avanti dagli stessi sindacati nella partita Alitalia, con il referendum dell’aprile 2017 che ha messo in fuga i precedenti soci e costretto la nostra compagnia di bandiera a finire a un passo dal fallimento – riguardano soprattutto alcuni specifici settori legati al manifatturiero e all’industria, ovvero settori che negli ultimi mesi sono cresciuti in modo esponenziale e che anche grazie alla spinta prodotta dal progetto di industria 4.0 (governo Renzi-governo Gentiloni) hanno costretto i sindacati che si sono impegnati su questo terreno a confrontarsi più su temi legati al merito che su temi legati all’ideologia. Ma l’impressione è che a differenza del 2013, quando i simboli della battaglia sindacale furono i volti sovrapposti di Camusso e Squinzi, in questa campagna elettorale i simboli della svolta sindacale potrebbero essere rappresentati dalla coppia Calenda-Bentivogli. E le parole consegnate venerdì scorso al quotidiano di Confindustria sono quelle che andrebbero trascritte nel prossimo programma di governo: “Occorre rispondere a una produzione che sarà sempre più ‘sartoriale’ – scrivono i due – e quindi il contratto nazionale ha senso non solo se ne riduce drasticamente il numero delle tipologie, che negli ultimi anni è esploso. Va incoraggiato il decentramento contrattuale, utile anche ai programmi condivisi di miglioramento della produttività, a livello territoriale, di sito e di rete”. Con un sorriso, il nostro amico Dario Di Vico, editorialista del Corriere della Sera, la scorsa settimana ha notato su twitter che “una volta in campagna elettorale le richieste di aumentare la spesa pubblica venivano dai sindacati, mentre oggi questi appaiono molto più responsabili dei partiti”. I prossimi giorni ci diranno se l’impressione è giusta ma al momento qualche piccolo segnale di buon senso inizia a prendere forma e sarebbe sciocco ignorarlo facendo finta di niente. O no?

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.