Pier Carlo Padoan (foto LaPresse)

Fa bene il Def a ridurre il deficit, ma servono tagli (e coraggio)

Carlo Cottarelli

Via i bonus, meno soldi alla Rai e altre cose facili da fare. E soprattutto pensare al futuro e non alle elezioni

Ha fatto bene il governo, nel recente Documento di economia e finanza (Def), a confermare l’obiettivo di riduzione del deficit pubblico da 2,1 per cento del pil quest’anno all’ 1,2 per cento nel 2018, come passo intermedio per avvicinare il pareggio di bilancio nel 2019. Ha fatto bene perché, se non pareggiamo i conti prima che la rete di protezione della Banca centrale europea (il quantitative easing) sia tolta, saremo esposti ad attacchi speculativi e dovremo allora intervenire più duramente sotto la pressione di uno spread crescente, come già accadde nel 2011-’12. Il governo ha fatto bene a confermare gli obiettivi anche perché cambiarli ogni sei mesi riduce la credibilità dell’Italia non solo dal punto di vista dei conti pubblici, ma come paese che rivendica di avere una voce autorevole in Europa.

 

Ma sono obiettivi raggiungibili? Ed è possibile ridurre il deficit nella misura prevista senza aumentare l’Iva o altre tasse? Io dico di sì. Facciamo qualche calcolo, concentrandoci sul 2018.

Parto dal quadro macroeconomico del Def, che prevede una crescita del pil reale dell’1 per cento, che anche l’Ufficio parlamentare di Bilancio ha validato, seppure con qualche riserva (il Fondo monetario internazionale ha una previsione di crescita piu’ bassa, ma non di molto). In questo quadro, il deficit dovrebbe ridursi dello 0,9 per cento di pil tra il 2017 e il 2018, ma, visto il piccolo risparmio nella spesa per interessi sul debito, il miglioramento necessario per il surplus primario (la differenza tra entrate e spese al netto degli interessi) è un po’ più basso: 0,8 per cento.

 

Se assumiamo di mantenere invariato il rapporto tra entrate e pil a livello del 2017 (quindi senza aumentare la pressione fiscale nel suo complesso), tutto il miglioramento deve essere sul lato della spesa: il rapporto tra spese primarie e pil si deve ridurre dello 0,8 per cento. Calcolatore alla mano, si può vedere che, dato il quadro macroeconomico del Def, la spesa primaria dovrebbe crescere dell’1,1 per cento in termini nominali, meno della crescita del pil: la spesa primaria reale, cioè al netto dell’inflazione, dovrebbe ridursi dello 0,6 per cento. Allora, pensate a una famiglia indebitata fino al collo cui si dice: quest’anno spendete 100, l’anno prossimo dovete spendere 99,4 in termini reali. Vi sembra un’operazione di austerità selvaggia? Guardiamo la cosa da un altro punto di vista: rispetto a uno scenario in cui la spesa cresce in linea con l’inflazione, e quindi non si taglia niente in termini reali, occorre risparmiare 5 miliardi, su circa 770 di spesa primaria nel 2017. Anche da questo punto di vista non sembra una cosa impossibile. Chiariamo una cosa: se volessimo tagliare le tasse rispetto al 2017 (e io credo sarebbe utile farlo), i tagli di spesa dovrebbero essere più sostanzionsi. Ma per raggiungere l’obiettivo di deficit dell’1,2 per cento, quel che serve è ridurre la spesa primaria dello 0,6 per cento in termini reali.

 

Naturalmente non vogliamo ridurre dello 0,6 per cento in termini reali tutte le voci di spesa. Sarebbero i famigerati tagli lineari. Allora cercherò di essere più mirato. Sono solo suggerimenti e mi piacerebbe essere preciso sul rendimento di certi interventi, ma mi servirebbero le potenti risorse della Ragioneria generale dello Stato. I lettori mi scuseranno.

 

Comincerei con l’eliminare, o non rinnovare, i vari bonus introdotti negli ultimi anni (assumendo che abbiano ancora un impatto sulla spesa per il 2017, visto che è di una riduzione rispetto a questa spesa, non al tendenziale, di cui si sta parlando): i 500 euro per i diciottenni, i 500 euro per gli insegnanti, e anche il bonus bebé. Abbiamo un serio problema demografico ma non si risolve con un bonus (fra l’altro mi sembra il bonus sia dato anche a chi partorisce poco dopo l’annuncio del bonus, con un effetto retroattivo, diciamo poco plausibile, sulle decisioni di procreazione).

 

Poi andrei a riguardare l’elenco dei cosiddetti trasferimenti alle imprese. Un po’ sono stati tagliati, ma c’è ancora da fare: non parlo dei trasferimenti alle imprese manifatturiere, ma dei soldi che vanno a cinema (interessante il recente servizio su Report su questo tema), televisioni, vari media, e ippica. Ridurrei anche i trasferimenti a ferrovie e al trasporto pubblico locale: i prezzo dei biglietti dell’alta velocità dovrebbero essere aumentati perché molto più bassi che all’estero nonostante la migliore qualità del servizio. Quanto al trasporto pubblico locale, occorre contrastare l’evasione del pagamento dei biglietti e anche gli abbonamenti costano troppo poco rispetto all’estero. Si dirà che queste sono tasse. Non, non sono tasse: sono un pagamento per un servizio che all’estero viene fatto pagare ai cittadini e non si capisce perché da noi non debba essere così. E poi minori trasferimenti potrebbero portare anche a una riduzione dei costi, con un minore impatto sulle tariffe.

 

La Rai: leggo che il recupero dell’evasione del canone, con l’introduzione di questo in bolletta, è stato per metà destinato ad aumentare le spese della Rai. Recuperei quei soldi: le spese della Rai vanno ridotte non aumentate perché, a meno di cambiamenti da quando ho lavorato su questo tema nel 2014, i costi di produzione sono eccessivi. Interverrei anche sugli stipendi dei dirigenti pubblici che i miei lavori e quelli di Roberto Perotti hanno dimostrato essere più alti di quelli dei loro colleghi inglesi, francesi e tedeschi, tenendo conto del differenziale di reddito pro capite tra queste nazioni e la nostra.

 

Il nodo delle agevolazioni

Non dimentichiamo le cosiddette “spese fiscali”, le varie agevolazioni che io e, soprattutto Roberto Perotti, avevamo studiato. Anche qui non ditemi che sono tasse: è una questione puramente contabile: lo stato può agevolare un settore o un’attività trasferendo soldi o detassando. Non fa differenza (e alcune agevolazioni sono infatti finanziate da una specifica voce di spesa).

 

Anatema: ridurrei un po’ anche gli investimenti pubblici. La banca dati della Commissione (Ameco) ci dice che nel 2017 dovrebbero essere pari al 2,2 per cento del pil, lo stesso livello della Germania. Riducendoli al 2,1 per cento del pil risparmieremmo 1,6 miliardi. E finché non impariamo a spendere meglio, non credo che l’economia nazionale ne soffrirebbe molto.

 

Ridurrei un po’ le spese militari, checché ne dica Trump, cui conviene comunque avere un’Italia forte economicamente non un’Italia sottoposta a rischi di attacchi speculativi. E qualche risparmio ulteriore si può anche avere sulla spesa per acquisti di beni e servizi, con il miglioramento del funzionamento delle centrali di acquisto.

 

Mi fermo qui, anche se l’elenco potrebbe essere più lungo. Non ho citato le spese per pensioni (quelle di chi riceve più di quanto coerente con i contributi versati, che potrebbero essere riviste come suggerito in passato da Tito Boeri), né altri risparmi che richiederebbero azioni di più lungo periodo, per esempio cambiamenti nell’organizzazione della pubblica amministrazione (azioni che però dovrebbero essere iniziate subito perché non dobbiamo dimenticarci del 2019). Includerei pero’ qualche risparmio sui costi della politica: quantitativamente non sono grandi, ma qualitativamente contano parecchio.

 

Prima di concludere, tre precisazioni. La prima è tecnica: i numeri che circolano sulla manovra per il 2018 sono più grandi di quelli che ho citato perché si riferiscono a differenze rispetto al quadro tendenziale: nel tendenziale alcune voci di spesa possono crescere e certe tasse ridursi per effetto di passati provvedimenti. Il che gonfia l’importo della manovra. Quello che però conta dal punto di vista macroeconomico è l’effetto dei tagli rispetto al 2017, non a un ipotetico 2018. La seconda è economica: se anche per effetto delle misure prese la crescita del 2018 finisse per essere un po’ più bassa del previsto, non sarebbe un dramma: quando si riduce il deficit, la crescita può rallentare, ma è un effetto temporaneo. L’impatto sui conti pubblici è invece permanente ed è quello che serve per evitare ben più gravi cadute del pil se riparte la speculazione. La terza è più generale: io vi ho dato il mio parere da economista. Cosa si possa fare politicamente, non lo so. Non è il mio mestiere. Ma se si continua a pensare a cosa si presume sia necessario fare per vincere le prossime elezioni, il paese finisce male (e poi le elezioni si perdono lo stesso). C’è anche chi dice che gli obiettivi di deficit pubblico sono stati confermati solo per ora e che, una volta passate le elezioni francesi, tedesche, e magari italiane, sarà possibile una loro revisione senza incorrere negli strali della Commissione Europea. Spero non sia così. Non ci converrebbe.

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