Il confronto Europeo e le incognite sul Def

Il contenzioso sull'output gap e le insufficienze nel piano di dismissioni. Un confronto che si preannuncia difficile

Carlo Torino

               

La recente pubblicazione del Documento di economia e finanza, pone in luce tutta l’intensità del confronto che viene progressivamente definendosi, giorno per giorno, fra istituzioni nazionali ed Europee in materia di finanza pubblica. A conferma di ciò, si legga l’ultimo rapporto della Commissione Europea in relazione alle previsioni d’inverno, e lo si confronti con il documento redatto dal Ministero dell’Economia inerente ai “fattori rilevanti”, per rendersi conto di quel contrasto vivissimo che ne domina la sostanza.

Ciò posto, occorrerebbe pur fare professione di realismo e decidersi ad abbandonare le metafisiche demagogiche dei populismi, i sogni arcadici dei sovranisimi, le plutarchesche reminiscenze di buona parte delle Destre, e riprendere il filo della nostra identità storica, così profondamente Europea.  

Ma procediamo con ordine.  Il Governo si è impegnato a porre in essere una manovra di correzione dei conti del valore di due decimi di Pil. E ciò in conformità a quanto rilevato dalla Commissione, nel rapporto di febbraio, indicante una deviazione significativa del saldo strutturale (depurato dalla componente ciclica e dalle misure una tantum), in confronto alla matrice del braccio preventivo del Patto di stabilità e del suo obiettivo di medio termine. In particolare, il disavanzo strutturale dell’Italia avrebbe fatto rilevare un peggioramento relativo al 2016 dello 0,6% del Pil, contro uno spazio in ulteriore disavanzo concesso - corretto per la flessibilità elargita in virtù delle clausole per investimenti, riforme strutturali e rischio sismico – dello 0,36%. 

In base alle previsioni a legislazione vigente del Def il disavanzo strutturale continuerà nella sua dinamica discendente, la quale si appresta a far rilevare un peggioramento dello 0,5% di Pil nel 2017, attestandosi su di un valore dell’1,6%. Un tale dato implicherebbe una deviazione notevole rispetto a quanto richiesto dal braccio preventivo del PSC, per quei paesi i quali presentino un rapporto debito/Pil superiore al 60%, e versino in condizioni macroeconomiche negative: segnatamente con una crescita effettuale inferiore a quella potenziale dell’1,8% (il cosiddetto output gap).

Senonché, sarebbe ingeneroso non ricordare che ci fu concessa, lo scorso anno, un’ampia flessibilità sui conti - 0,86% del Pil (non è poco) – in quanto a negoziare con i commissari vi era un Governo forte e caratterizzato da un evidente empito riformistico. La situazione odierna - inutile dirlo - presenta un esecutivo con una connotazione di forze di maggioranza tanto simile al precedente, quanto intrinsecamente differente ne siano legittimazione e libertà di azione. Il Def è, se si vuole, la rappresentazione scenica di quella irresolutezza programmatica. Se da una parte si è voluto accondiscendere prontamente alle richieste di una manovra correttiva, dall’altra non si può non notare tutta la dissimuata logica di compromesso pre-elettorale, che pervade la natura intima del documento.

Ma quali sono i punti deboli del Def? Come già rilevato in altre sedi, la totale disattivazione delle clausole di salvaguardia sull’Iva (19,6 miliardi), se da una parte vuole rispondere a un’esigenza comprensibile di non aumentare la pressione fiscale, dall’altra pone in luce tutta la mancanza di un disegno programmatico di politica economica volto a trasferire l’imposizione dal lavoro al consumo; dalle imposte dirette sui redditi a quelle indirette sul consumo. E pone altresì in rilievo un problema di reperimento di risorse atte a finanziare una maggiore decontribuzione (strutturale) del cuneo fiscale: magari estesa a una più ampia categoria di beneficiari.

Dobbiamo inoltre constatare l’insufficienza degli sforzi indicati dal Governo in materia di privatizzazioni e dismissioni: solo lo 0,3% del Pil l’anno per i prossimi cinque anni. Importi troppo esigui, che contribuiscono in maniera solo marginale alla correzione del rapporto debito/Pil. Valore, quest'ultimo, ancora ostaggio di un costo per interessi maggiore della componente di crescita nominale (al lordo dell'inflazione): condizione che ne determina un suo progressivo accrescimento nel tempo (effetto snowball); e ciò almeno fino alla fine dell’anno in corso. Un aspetto sul quale la Commissione non si è astenuta dal porre in luce i suoi rilievi, forse eccessivi, e non privi di una certa incontinenza cattedratica. Senonché rimane il problema di un'evidente assenza di organicità nel piano di dismissioni proposto.

Ciò posto, va inoltre ricordato che in ottobre, in sede di Nota di aggiornamento al Def, e di Legge di bilancio poi, non si potrà improntare una manovra puramente recessiva, con temibili riverberi di contrazione sul tasso di crescita.

La sostanza di queste osservazioni ci porta dunque a concludere che la sfida del Governo non può limitarsi a una pura negoziazione di margini di flessibilità in sede europea, o anche solo a una diatriba computazionale – per quanto di capitale importanza – sull’output gap. Ma dovrebbe invece gettare le basi per una programmazione economica che lasci convergere obiettivi di crescita e consolidamento fiscale, nel solco dei quali il prossimo esecutivo vorrà auspicabilmente continuare.