Foto di João Pedro Silveira Martins via Flickr

Una globalizzazione è finita

Antonio Pilati

Impossibile farne a meno, ma urge revisione per ricomporre il disordine politico Perché si è rotto il patto tra élite ed elettori, e a sinistra il mercato non tira più

La globalizzazione non svanirà, è ormai irreversibile, ma muterà forma politica, interessi di riferimento, modello ideologico. Nella sua versione attuale ha prodotto grandi benefici in tutto il mondo e molti danni sui due lati dell’Atlantico: soprattutto ha infranto quel patto fra élite ed elettori, fondato su crescita dei consumi e aggiornamento graduale della tradizione, che ha retto il dopoguerra.

 

E’ questa rottura che rende impraticabile la globalizzazione come oggi la conosciamo e la consegna a un tramonto turbolento e velenoso. Il suo ciclo si avvia grosso modo a metà degli anni Novanta quando la rivoluzione digitale, che ha acquistato crescente potenza, con il Web connette all’istante quasi tutto il mondo e facilita l’accesso ai depositi di sapere, ovunque siano sparsi. La connessione universale – un salto tecnologico di prima grandezza nella storia umana – sospinge l’espansione mondiale dei mercati e le dà una forma ben delineata, anche se non esplicita, che si basa su tre principi.

Il primo è la prevalenza della chiave tecnica sull’ispirazione politica. L’efficacia di accordi e trattati che costituiscono la trama portante della globalizzazione è misurata da subito in base a parametri tecnici: grado di apertura dei mercati, ampiezza di circolazione dei capitali, volumi degli scambi. Porre l’efficacia tecnica come bussola di un’azione sociale così vasta qual è la riorganizzazione mondiale dei mercati produce un’enorme accelerazione dei processi: in pochi anni, a cavallo del cambio di millennio, si trasformano luoghi e modalità di produzione, dimensioni finanziarie, gerarchia economica delle nazioni. Il primato della velocità operativa è il secondo principio e porta con sé esiti dolorosi. L’ascesa della Cina, l’intreccio fra debito Usa acquistato in grande quantità da Pechino e mercati americani spalancati alle merci asiatiche, la contrazione industriale di molte aree dell’Europa (e del Midwest yankee) si sviluppano in una sequenza così rapida da drammatizzare gli effetti sociali che, non essendo filtrati né gestiti nel tempo, si amplificano. Infine – ultimo principio – il deprezzamento degli stati: la visione di un flusso di scambi che si dispiega senza ostacoli porta a minimizzare, quando non a deprecare, il ruolo degli stati che appaiono come una pietra d’inciampo per il funzionamento dei mercati. E’ un altro modo di attestare la prevalenza dei fatti tecnici sulle prospettive della politica (che è l’essenza dello stato nazionale). A conferma, proliferano istituzioni internazionali, basate su oligarchie non elette, che accumulano poteri, annettono nuovi campi d’azione, immaginano di assorbire nella propria razionalità specialistica gli stati (per poi sostituirli).

 

La svalutazione della politica, che porta fuori dal circuito delle decisioni collettive ambiti sempre più ampi ed essenziali della vita sociale, è la premessa alla rottura del patto elettorale: quando dopo il 2008, con la crisi, le conseguenze delle decisioni tecniche si rivelano un costo drammatico per vaste porzioni di società in Europa e in America e il circuito elettorale – quindi la politica – riprende nelle nazioni-chiave la sua influenza, la forma oligarchica della globalizzazione arriva al capolinea. Ma la razionalità tecnica non è innocente: la grande espansione dei mercati riflette – ed è per questo così travolgente – poderose spinte materiali: l’interesse degli operatori finanziari a massimizzare il raggio d’azione e a minimizzare i limiti normativi, l’impulso delle imprese a estendere gli sbocchi commerciali ma soprattutto ad ampliare la libertà di combinare i fattori produttivi, la pressione delle potenze emergenti per diventare attori economici a largo spettro. Sono questi i soggetti che, insieme alle istituzioni sovranazionali, ricevono i maggiori benefici dalla globalizzazione e che oggi, per contrappasso politico, incassano uno stop di portata storica: cadono insieme la forma sociale che essi hanno dato all’espansione dei mercati e la quieta condiscendenza della politica per le loro pretese. L’anti cinese Trump contrario alle delocalizzazioni e la Brexit anti Ue lo testimoniano. In correlazione chiedono risarcimenti i “forgotten”, come Trump con garbo rooseveltiano chiama i perdenti dell’accelerazione globale – classi sociali, lavori, aree geografiche che in questi anni hanno patito pesantemente.

 

In tutto ciò c’è un fatto cruciale da ricordare. Alla fine degli anni Novanta, quando l’espansione dei mercati prende slancio, alla guida degli stati capitalisti più importanti si trovano leader di sinistra: Clinton, Blair, Schroeder (in Italia c’è l’Ulivo di Prodi e D’Alema, in Francia Jospin coabita con Chirac). Dopo vent’anni quel sostegno alla accelerata espansione dei mercati, che al tempo era visto come una strategia vincente e inevitabile, sfocia in un danno profondo per il mondo sociale che la sinistra dalla nascita rappresenta. Sarebbe sbagliato interpretare quelle scelte con le categorie della deviazione o del tradimento: piuttosto in quell’adesione felice all’onda degli eventi riecheggia l’inclinazione di un’epoca che, dopo il crollo sovietico, considerava finita la storia e vedeva in campo ormai una sola opzione politico-economica. Faciloneria intellettuale, anche arroganza, ma largamente condivise. I successi di Soros all’epoca spaziavano dalle valute ai think tank. In più, l’idea della tecnologia (digitale) che rimodella la società e così aumenta la ricchezza collettiva rievoca uno dei temi fondamentali nel sistema concettuale della sinistra: la certezza che la storia abbia una direzione positiva, che avanzi verso l’emancipazione sociale grazie anche (per alcuni: soprattutto) allo sviluppo delle forze produttive. L’espansione dei mercati si inserisce nella marcia (inarrestabile) del progresso e quindi non può che essere sostenuta e agevolata: i rialzi di Borsa e l’incremento delle merci (made in China) disponibili a basso prezzo confermano. Il primato della politica, che per generazioni aveva costituito un’idea direttiva per le innumerevoli varianti della sinistra, trova all’improvviso una smentita irrefutabile nel crollo del più audace (e doloroso) esperimento di ingegneria sociale mai tentato nella storia e lascia spazio a una visione surrogata che affida il progresso collettivo non più alla fantasia della politica che catalizza le energie sociali ma alla forza della tecnologia che unifica i mercati e massimizza i rendimenti.

 

Non è un semplice riflesso di autotutela politica. C’è dell’altro: a sinistra si viene addensando, quasi come naturale evoluzione del primato tecnico, un sistema di idee che decora e completa di significato il movimento espansivo dei mercati che unifica il mondo. E’ il nuovo millennio e i leader che succedono a Clinton e Blair, da Al Gore a Zapatero fino a Obama (in Italia c’è Veltroni), allargano il campo tematico, superano i confini  dell’economia e declinano la visione universalista nell’ambito dei comportamenti sociali. Come già era accaduto sul piano politico con gli stati, anche per quanto riguarda la vita collettiva il nuovo schema ideologico tende a deprimere il tratto peculiare dei nessi storici che hanno alto valore simbolico e speciale intensità affettiva – tradizione, cultura, famiglia – per parificarli in una indistinta appartenenza umana. E’ la premessa concettuale per l’onda multiculturalista o per l’espansione indiscriminata dell’idea di famiglia. In correlazione si affermano due ideologie generaliste che valorizzano i caratteri comuni della natura umana e mettono da parte le differenze formate dalla storia: da un lato una proliferante teoria dei diritti che ha come base la parità delle condizioni di partenza da assicurare a ciascuno in quanto essere umano e in ciò consolida la visione universalista; dall’altro lo schema ecologista che vede l’ambiente come casa comune dell’umanità e – per conservarlo in buona salute – vuole vincolare tutti ad agire insieme superando peculiarità e divergenze.

Anche questa visione dei rapporti sociali, in quanto contribuisce a rompere il patto fra élite ed elettori, è oggi rimessa in discussione: il rigetto del perbenismo benevolente, che erode o minaccia il tessuto di rapporti personali che dà forma all’esistenza di molti e svaluta il mondo di idee che la anima, è uno dei temi-chiave della vittoria di Trump e dell’ascesa di molti partiti radicali in Europa.

 

Contestata su più fronti – economico, politico, ideologico – la globalizzazione attuale ha tuttavia notevoli capacità di resistenza. La reazione dei forgotten sbatte contro la forza dell’esistente: la macchina globale è complessa, ha portato benessere a molti settori economici e a molte parti del mondo (vedi le grandi città cosmopolite dell’Occidente: Londra, New York, la costa californiana), opera con regole di funzionamento esoteriche che neppure i suoi sacerdoti riescono a dominare (vedi il 2008 e poi i ripetuti fallimenti delle previsioni economiche). Lo scontro oggi in corso è complicato, aspro e si gioca su più livelli: dal suo esito dipende la forma della globalizzazione nei prossimi anni.

 

La dimensione fondamentale è quella politica: l’onda elettorale del 2016 riafferma la volontà, diffusa nel corpo sociale, di avere influenza, di recuperare la capacità di decidere limitando il deflusso dei poteri fuori dallo stato (l’istituzione dove si vota), di bloccare traiettorie strategiche definita quasi in automatico dalle élite. La seconda dimensione è storica e si lega strettamente alla prima: Brexit e Trump si verificano in stati che non hanno intaccato la propria sovranità, che ne sono custodi gelosi in quanto attributo della volontà popolare. E’ questa la reale differenza con le attorcigliate vicende europee, dove l’incombente vincolo sovranazionale toglie sbocchi alla reazione elettorale dei perdenti e rischia di aumentare il danno. C’è infine la dimensione più caratteristica – quella negoziale. E’ la forma inedita con cui oggi i forgotten cercano di definire un risultato politico, di aggiustare a proprio favore l’assetto dei mercati: i deal di Trump, le trattative del post-Brexit. Il negoziato è multiplo: fra i diversi stati; fra stati e organismi sovranazionali; fra gruppi sociali all’interno degli stati.

 

Cina e Germania, che negli ultimi vent’anni hanno scalato posizioni nelle gerarchie dell’economia mondiale migliorando redditi dei cittadini, surplus commerciali e riserve monetarie, sono chiamate a rivedere le condizioni politiche della propria ascesa. Gli Stati Uniti, che si vedono impegnati dall’esito elettorale a mettere in primo piano l’agenda domestica, diventano meno accondiscendenti con le pretese e gli interessi degli altri stati, alleati inclusi (un atteggiamento rovesciato rispetto a quello che portò al Piano Marshall). Giappone e Corea, che si sentono minacciati dalla Cina, pensano di rafforzarsi se offrono una sponda alla nuova strategia americana. Il fatto cruciale è la spinta a cambiare la cornice politica – norme, obiettivi, regole d’ingaggio – degli scambi nella speranza di limitarne gli effetti considerati controproducenti (produzioni delocalizzate, investimenti evaporati). Una simile impresa modifica accordi, trattati, ma soprattutto alleanze: il disordine politico che ha dominato l’ultimo quarto di secolo può essere ricomposto se l’idea di una globalizzazione mitigata ha spinta creativa e lucidità politica sufficienti a formare un asse di alleanze che, aggregando in modo nuovo interessi e forze, porti stabilità.

 

Mentre l’orientamento della competizione (negoziale?) fra gli stati appare ancora incerto, molto chiara è invece la dinamica dei rapporti fra stati e costruzioni sovranazionali: dalla Ue a svariate branche dell’Onu fino alle aree commerciali istituite con trattati, tutto il mondo giuridico che nasce o si espande a partire dalla propensione anni Novanta per l’abbattimento delle barriere perde, con la crisi di cui diventa facile capro espiatorio, efficacia operativa e consenso popolare lasciando campo al recupero degli stati nazionali. E’ forse il conflitto elettivo di questo periodo: il mondo sovranazionale – non eletto, invasivo, arrogante – incarna come un cattivo da manuale quel versante opaco della globalizzazione (statuto speciale dei sistemi finanziari, vincoli alla decisioni dei Parlamenti nazionali) oggi sotto tiro – il suo ripiegamento è segnato. In dubbio è l’ampiezza della ritirata e, in aggiunta, la figura che potrà prendere la globalizzazione una volta modellata in ampia parte dagli stati nazionali.

 

Dentro gli stati i forgotten giocano la partita più difficile: intorno all’idea della globalizzazione accelerata si coagula, accanto a interessi materiali e a nuclei forti di potere pubblico, l’ideologia universalista e parificante che appare tuttora attraente, aggressiva, autogratificante. E’ una combinazione efficace che può limitare, a tutela degli interessi oligarchici, l’ampiezza della reazione elettorale. In fondo c’è molta ironia in una congiuntura politica dove gli interessi di Soros sono difesi da una ideologia forgiata dalla sinistra che a sua volta, proprio a causa dell’estraneità popolare di quelle idee, perde elettori e storia.

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