Tony Blair (foto LaPresse)

Non esiste una Brexit a ogni costo, dice Blair. Si può cambiare idea

Paola Peduzzi

L’ex premier inglese lancia la sua missione “cuore e menti”: dopo il voto di protesta, c’è l’esperienza. Il peso della sua impopolarità

Milano. Poi è tornato Tony Blair, accompagnato dal suo bagaglio politico ingombrante che lo rende tanto impopolare, a lanciare la campagna “cuori e menti” per sovvertire l’inevitabilità della Brexit. Non toccava a lui: Blair potrà anche avere ancora molta voglia di un ruolo pubblico, ambizioso com’è, ma se l’opposizione alla Brexit fosse, nel Regno Unito, reale e concreta e coordinata, neppure l’ambizione di Blair avrebbe trovato un varco. Non è così: il Labour di Jeremy Corbyn ha abdicato finora al suo ruolo di opposizione al governo, e quindi alla Brexit, scatenando l’ennesima crisi interna al partito, con purghe interne, lasciando molti elettori a interrogarsi su quale sia, davvero, il piano di questo Labour. I Lib-Dem continuano la loro battaglia europeista, ma il sogno vagheggiato dall’ex leader Nick Clegg, “l’Obama inglese” ahinoi, all’indomani del referendum – fare un partito del 48 per cento e allargarlo e farlo diventare maggioranza – non si è mai realizzato.

 

Così è tornato Tony Blair, che ha l’enorme, forse irrisolvibile, difetto di essere il più pugnace difensore non soltanto del Labour liberale (che ha creato lui), ma dell’ordine globale liberale con la popolarità più bassa che si possa immaginare. Appena s’è sparsa la notizia che l’ex premier laburista sessantatreenne avrebbe parlato a Londra, nella sede di Open Britain, sulla rete sono ricomparse le immagini di Blair con le mani sporche di sangue, il “criminale di guerra” col ghigno mefistofelico, e tanti inviti ad andarsene, per sempre, dalla scena pubblica. Non lo amano i laburisti di oggi, figurarsi gli altri, che da sempre si scontrano con lui, e spesso in passato hanno preso anche delle grandi batoste da lui.

 

Questo è Blair per molti inglesi e molta audience europea, ma la sua “missione” è l’unica che abbia un senso raccontare nel Regno Unito che s’adatta, impaurito, al suo nuovo ruolo di fuoriuscito. Blair dice: c’è il diritto a cambiare idea. Ce l’hanno quelli che hanno votato la Brexit e non sapevano esattamente cosa aspettarsi, hanno votato un’idea, magari affascinante, e vanno rispettati, ma magari saranno loro i primi a non essere più i più convinti che l’uscita dall’Ue sia un’occasione. L’imperativo del “get on with it”, portiamo avanti la volontà popolare, potrebbe non essere così dominante nemmeno per il popolo. E allora, convinciamolo che è così, è un nostro dovere, non potremo dire ai nostri figli che nel Regno Unito fuori dal gruppo dovranno vivere, forse impoveriti, che non ci abbiamo nemmeno provato.

 

Il voto di protesta – non soltanto nel Regno Unito – è fatto in nome di un cambiamento che in realtà un nome non ce l’ha, e una volta che questo cambiamento diventa esperienza potrebbe anche modificare le intenzioni di chi l’ha votato. Accade con la Brexit, accade con il trumpismo, spettacolare reazione all’ordine costituito che ora si sta trasformando in uno show che non soddisfa nessuno, nemmeno chi Trump l’ha sostenuto. Su questo, sull’esperienza dopo la protesta, Blair fonda la sua missione: vediamo cos’è davvero questa Brexit, vediamo quanto costa, non nelle previsioni ma nei dettagli, uscire dall’Ue, vediamo che cosa significa per il nostro paese abbandonare il mercato unico, vediamo se davvero la “Great Britain” di Theresa May, il premier, è conveniente.

 

Blair vola alto, non esiste una Brexit a ogni costo, poi ogni tanto si piega e mena forte, quando dice che il manto del patriottismo non è un’esclusiva del governo, quando dice che i giornali conservatori stanno raccontando una Brexit che non esiste, rappresentano soltanto i benefici e mai i costi, e dominano il dibattito. “La caratteristica incontrovertibile della politica oggi è la sua propensione alla rivolta – ha detto Blair – I brexiteers ne hanno beneficiato, e ora vogliono che tutto sia congelato a un giorno di giugno del 2016. Diranno che la volontà popolare non può essere alterata. Ma può. Diranno che uscire è inevitabile. Non lo è. Diranno che stiamo dividendo il paese con questa missione. Ma sono loro che lo dividono, una generazione dall’altra, il nord dal sud, la Scozia dall’Inghilterra, quelli nati qui e quelli che sono venuti qui perché ammirano i valori di questo paese. Non è il tempo dell’indifferenza questo, ma il momento di alzarci e difendere quello in cui crediamo”. Boris Johnson, ministro degli Esteri gran cantore della Brexit, ha risposto poco dopo: “L’unica cosa che dobbiamo fare quando ci alziamo è spegnere la tv se parla Blair”.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi