Mario Draghi (foto LaPresse)

La magia di Draghi non è infinita

Redazione
Le occasioni perse dai paesi che non sfruttano il fluido magico della Bce

Chi non ricorda il famigerato “wathever it takes” – “all’interno del nostro mandato la Banca centrale europea è pronta a fare qualunque cosa per salvare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza” – di Mario Draghi del 26 luglio 2012? Un po’ per il luogo, Londra, un po’ per la crisi drammatica di allora, e un po’ per l’originalità dell’affermazione dalla quale traspariva una certa gravità della situazione, fu paragonato al “sangue, fatica, lacrime e sudore” con cui Winston Churchill nel 1940 si rivolse agli inglesi promettendo in cambio “vittoria a tutti i costi”. Churchill vinse la guerra, ma subito dopo perse le elezioni. Draghi scade il 31 dicembre 2019, e forse da qui ad allora non potrà più essere il SuperMario al quale la stampa italiana e internazionale aveva attribuito dei superpoteri immensi – anche al di là delle sue reali possibilità. Intanto Draghi può di certo rivendicare il successo nella propria guerra di stimoli monetari, spinti fino all’acquisto di obbligazioni private di aziende europee. Ma potrà fare la “V” di vittoria come Churchill? L’euro è (per ora) in salvo, ma l’obiettivo di inflazione vicino al 2 per cento ancora lontano. Lentissima è la ripresa, con l’Italia in coda; impietoso appare poi il confronto con gli Stati Uniti, a parità (o quasi) di moneta facile, se non nella quantità almeno nell’uso dello strumento del Quantitative easing (Qe). Giovedì Draghi ha ricordato il contributo della Bce al pil dal 2014, quando è stato lanciato il Qe, l’allentamento monetario: 1,4-1,5 punti cumulati.

 

Oltre alla matematica del risparmio sugli interessi dei titoli pubblici, e dei prestiti e mutui – mai così a buon mercato per aziende e famiglie – ha poi inciso l’effetto degli annunci del capo della Bce, finora più chiari e diretti di quelli provenienti dalla Federal reserve, dalla Bank of Japan e dalla Bank of England. Però la percezione bonaria dei mercati sta man mano svanendo (non per colpa di Draghi, semmai per colpa dei governi lenti a sfruttare l’occasione propizia della calma dei mercati e dei tassi negativi per riformare i propri paesi) e se ne è avuta contezza giovedì alla conferenza stampa successiva al Consiglio direttivo, dal quale non è uscito niente di nuovo: Draghi, strattonato di recente dalla stampa finanziaria anglosassone, ripete che “il Qe proseguirà fino alla scadenza di marzo 2017 e oltre, finché ce ne sarà bisogno”, ma non intende delineare l’agenda della prossima riunione di dicembre, che a sua volta dovrebbe essere decisiva su cosa fare l’anno prossimo. Insomma prende tempo, in attesa magari del referendum italiano o, prima ancora, delle elezioni americane. Le reazioni riflettono i dubbi e i rinvii: Borse prima giù poi di poco su, euro ai minimi sul dollaro in attesa che la Fed rialzi i tassi. Dunque, impatto zero. Il mago di Francoforte non ha fluido magico infinito, anche se, come ha ricordato, non è la Bce da sola a creare lavoro e crescita, e neppure a tracciare la rotta. Gli si può dare torto?