(foto LaPresse)

L'indice dell'apocalisse finanziaria

Claudio Cerasa
Nelle ultime settimane c’è un grafico che i teorici dell’apocalisse scrutano compulsivamente e che spiega bene perché il 2017 può essere l’anno di un nuovo disastro dei mercati azionari. Scene e numeri da una fine del mondo.

E se ci fosse un’apocalisse in arrivo? Nel 1957, una delle agenzie di rating più famose del mondo, Standard & Poor’s, realizzò un indice economico molto importante chiamato S&P 500. Attraverso questo indice, Standard & Poor’s creò un grande paniere di azioni formato dalle 500 aziende statunitensi a maggiore capitalizzazione e a poco a poco l’S&P 500 si è affermato nel mondo finanziario come l’indice più importante da osservare, non solo per misurare lo stato di salute del mercato americano ma anche per provare ad anticipare, per quanto possibile, i futuri collassi dell’economia reale. Negli ultimi vent’anni – e arriviamo alla ragione attuale di questa breve digressione storica – l’indice S&P 500 ha consegnato agli osservatori finanziari una sorta di regola non scritta: l’S&P 500 si muove con delle oscillazioni periodiche tutto sommato regolari e queste oscillazioni dicono che dopo quattro-cinque anni di crescita seguono due o tre anni di improvvisa e dolorosa decrescita.

 


L’indice S&P 500 segue l'andamento di un paniere azionario formato dalle 500 aziende Usa a maggiore capitalizzazione


 

Dal 31 dicembre 1996 al 24 marzo del 2000 (poco meno di quattro anni), il valore dell’S&P 500 è cresciuto del 116 per cento, crollando poi nei successivi due anni del 47 per cento. Dal 9 ottobre del 2002 al 9 ottobre del 2007 (cinque anni tondi) il valore dell’S&P 500 è aumentato del 121 per cento, per poi crollare nel giro di due anni del 55 per cento. Dal 9 marzo del 2009 al 30 settembre del 2016, eccoci ai nostri giorni, l’indice non ha mai smesso di crescere, e negli ultimi sette anni l’S&P 500 è aumentato di una percentuale mostruosa: più 276 per cento. Di qui arriviamo al senso e alle ragioni che giustificano la centralità della domanda iniziale, e che non è una domanda del Foglio ma è una domanda diventata centrale nel mondo finanziario e imprenditoriale italiano, europeo e internazionale. Problema: se a ogni crollo dell’indice S&P 500 coincide un crollo clamoroso dell’economia reale, e se sappiamo che quell’indice difficilmente cresce per più di cinque anni, non sarà che l’economia mondiale si trova a un passo dall’inizio di una apocalisse finanziaria?

 

La domanda ha una sua logica e una sua centralità oggettiva – specie considerando il fatto che, tra crollo del petrolio e timori sulla crescita cinese, già all’inizio del 2016 l’indice ha segnato perdite superiori al 10 per cento – ma più che rispondere alla domanda (impossibile sapere se davvero l’apocalisse è in arrivo) occorre capire quali sono gli elementi che portano i pessimisti a dubitare fortissimamente che l’indice S&P 500 possa galoppare a lungo. Non si può rispondere alla domanda “a che ora è la fine del mondo” ma si può dunque provare a mettere insieme i fattori da osservare con attenzione per capire quando potrebbe cominciare a sentirsi sui mercati finanziari la sirena della valanga imminente. Il ragionamento va suddiviso in due filoni. Da una parte ci sono le grandi fragilità già presenti nel sistema macro economico mondiale, dall’altra parte ci sono le variabili considerate potenzialmente pericolose.

 

Sul primo fronte, ovvero le fragilità già esistenti, gran parte degli osservatori di cose economiche individua un grande filone che rischia di essere il dramma economico dei prossimi mesi: il calo del commercio mondiale. Calo che si può meglio mettere a fuoco con alcuni dati. Le esportazioni cinesi, per esempio, sentinella importante per capire la salute della domanda commerciale nel mondo, sono scese del 10 per cento rispetto al 2015 e il calo registrato a ottobre è la quattordicesima riduzione negli ultimi quindici mesi. Le importazioni verso la Cina, storicamente una sentinella importante per misurare le potenzialità di crescita dei paesi esportatori (come l’Italia), sono a loro volta scese a settembre più delle previsioni di inizio anno: meno 1,9, al posto di un meno 1 per cento (la stessa bilancia commerciale italiana, parametro che serve a registrare l’ammontare delle importazioni e delle esportazioni di merci di un paese, a settembre ha segnato un risultato positivo non tanto per l’incremento delle esportazioni, cresciute dello 0,5 per cento, quanto per una marcata diminuzione delle importazioni, scese del 4,1 per cento).

 

E uno dei riflessi della crisi del commercio mondiale è anche la crisi del trasporto marittimo e del mercato dei container: nel 2016 11 delle 12 più grandi società del settore hanno pubblicato i loro bilanci del secondo trimestre registrando gravi perdite  entro la fine del 2016 il settore potrebbe perdere 9 dei 150 miliardi di euro che fattura ogni anno) e qualche settimana fa è fallita una delle più grandi compagnie di trasporto marittimo di container al mondo, la coreana Hanjin Shipping (come segnalato dall’Economist nel settembre 2015, per la prima volta in più di 60 anni, il pil del mondo è cresciuto più rapidamente del trasporto marittimo).

 

Accanto alla grande fragilità presente oggi nel sistema economico mondiale ci sono poi le fragilità potenziali. La lista è lunga e comprende anche i molti possibili scenari apocalittici legati al futuro di cinque degli otto paesi che fanno parte del G8 (le elezioni americane, le elezioni tedesche, le elezioni francesi, il referendum italiano, il completamento della Brexit nel Regno Unito). Ma in cima alla lista delle preoccupazioni di chi osserva con terrore l’indice S&P 500 ci sono due passaggi chiave che potrebbero avere un’incidenza importante (e anche pericolosa) sui titoli azionari dalle 500 aziende statunitensi a maggiore capitalizzazione (e non solo su questi). Il passaggio più importante – le micce sono infinite – è legato a cosa farà la Federal Reserve, la Banca centrale degli Stati Uniti, a dicembre, quando Janet Yellen (capo della Fed) dovrebbe rialzare i tassi dei titoli di stato americani.

 


Janet Yellen (foto LaPresse)


 

La decisione di rialzare i tassi viene considerata molto probabile da un gran numero di analisti, in quanto in America sono presenti da mesi ormai le due caratteristiche che la Fed aspettava da tempo per considerare in salute l’economia: la piena occupazione (la disoccupazione è al 4,9 per cento, sotto il tetto del 5 per cento considerato dalla Fed come piena occupazione) e l’inflazione ha raggiunto l’obiettivo che la Banca centrale americana si era prefissata, ovvero il 2 per cento. Piccolo problema: i sette anni di prosperità dell’indice S&P 500 (2009-2016) coincidono con gli anni in cui la Fed ha lasciato i tassi di interesse sui titoli di stato prossimi allo zero. E secondo molti analisti un rialzo dei tassi di interesse più robusto rispetto a quello minimo registrato nel dicembre del 2015 (+0,25 per cento) potrebbe portare alla famosa scintilla. La ragione può sembrare tecnica ma in realtà è facile da comprendere: se i titoli di stato rendono quasi zero, investire nei titoli di stato non è conveniente, non è redditizio, e porta a considerare più conveniente e più redditizio investire in azioni sul mercato (equity).

 

Negli ultimi sette anni l’indice S&P 500 (equity) è cresciuto in modo esponenziale (+276 per cento) anche grazie alla politica particolarmente accomodante della Fed, che ha rimesso in movimento il mercato e l’economia americana rendendo più vantaggioso acquistare equity. Se questo incantesimo dovesse interrompersi – è questo il timore degli apocalittici – il risultato potrebbe non essere facilmente gestibile (in gioco ci sono 12.000 miliardi di dollari di investimenti in equity dei fondi pensione) e si spiegherebbero anche così alcuni dati minacciosi registrati negli ultimi giorni dagli osservatori di cose finanziarie. Uno su tutti è quello comunicato due giorni fa da una società specializzata in investimenti sul mercato azionario, l’Investment Company Institute, e in base a questi dati risulta che tra il 10 ottobre e il 19 ottobre è stato registrato il più alto volume di vendita di azioni sul mercato dall’agosto 2011 (valore 16,3 miliardi).

 

Il secondo fattore considerato dai teorici dell’apocalisse come elemento di potenziale e incontrollabile instabilità riguarda le scelte future di un’altra grande banca centrale, ovvero quella europea. Il ragionamento è simile a quello fatto per la Fed: riuscirà l’indice S&P 500 a non registrare un crollo improvviso in caso di revisione del Quantitative easing (acquisto di titoli di stato) da parte della Banca centrale europea? Nulla lascia intendere che la Bce interrompa bruscamente a marzo l’operazione QE (acquisto di titoli di stato) e lo stesso governatore italiano Ignazio Visco ha ammesso, proprio su questo giornale, che non c’è motivo per cui il programma della Bce dovrebbe fermarsi. Eppure, i teorici del moriremo tutti intravedono un rischio concreto: ovvero sia che a dicembre la Bce annunci una diminuzione nell’acquisto dei titoli di stato. Nessuno conferma e nessuno smentisce naturalmente questa possibilità ma ieri i mercati hanno offerto un indizio che potrebbe portare acqua al mulino degli apocalittici.

 

Nel corso della giornata, i rendimenti dei titoli di stato europei hanno fatto segnare un balzo significativo (il più alto degli ultimi sei mesi) e il tasso del Bund (il titolo di stato tedesco) si è spinto fino allo 0,22. Il meccanismo dei titoli di stato è banale e funziona sempre in base al rapporto tra domanda e offerta. Proviamo a semplificare. Se tutti vogliono un paio di stivali, il prezzo degli stivali va su e il tasso di interesse scende. Se nessuno vuole più gli stivali, il prezzo va giù e il tasso di interesse sale. Se i mercati capiscono che la Bce non vuole più comprare gli stivali, il prezzo degli stivali scende e il tasso sale. Bene. Ieri il tasso è salito e se l’indicazione è che la Bce potrebbe rivedere il suo piano di acquisti di titoli di stato (comprando meno stivali) di sicuro da qui a dicembre gli apocalittici cominceranno a osservare l’indice l’S&P 500 consapevoli che il prossimo anno quella linea che da sette anni non ha mai smesso di salire improvvisamente potrebbe cominciare a scendere. E, come si dice, qualcuno potrebbe farsi male.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.