La banca non è un affare per gli stati

Carlo Milani
Perché quando lo stato prende il controllo di un istituto bancario i risultati sono molte volte disastrosi. L'esperienza italiana che portò alla privatizzazione delle banche pubbliche negli anni Novanta e l'esempio, da non ripercorrere, delle Landesbanken in Germania.

Disporre di un sistema finanziario ben funzionante è condizione necessaria affinché un’economia possa operare efficacemente. Sulla base di questo presupposto, e al fine di evitare il collasso dell’industria bancaria, può essere giustificato l’intervento dello stato che, però, dovrebbe essere un’eccezione. Quando lo stato prende il controllo di una banca i risultati sono infatti molte volte disastrosi: se si può decidere chi finanziare è facile che emerga la tentazione di usare la moneta a fini politici. L’esperienza italiana dovrebbe essere di insegnamento.

 

Le banche pubbliche italiane sono state simbolo di inefficienza, tanto da indurne la privatizzazione negli anni Novanta. Ma anche guardando all’efficientissima Germania le evidenze non sono molto più confortanti. Nei quindici anni che hanno preceduto la crisi finanziaria la Germania ha iniettato circa 9 miliardi di euro nelle banche pubbliche, le Landesbanken. Ciononostante, queste banche si sono trovate impreparate di fronte alla crisi e il governo ha dovuto iniettare somme ancor più cospicue. Alla base di questi risultati ci sono le pessime capacità dei banchieri pubblici, le cui competenze in ambito finanziario sono spesso inadeguate.

 

Anche nei casi in cui uno stato non voglia entrare nella gestione di una banca, immettendo capitali freschi sotto forma di azioni privilegiate come avvenuto negli Usa con il piano TARP, il ritorno per il contribuente non è scontato. Molti commentatori sostengono che il governo statunitense abbia ottenuto un profitto dall’operazione. Guardando esclusivamente al valore nominale delle ricapitalizzazioni bancarie sembrerebbe essere così: la plusvalenza è stata pari a 17 miliardi di dollari. Se si considera però anche il supporto pubblico offerto ad AIG, la compagnia di assicurazione molto impegnata nel mercato dei derivati, le cui controparti sono prevalentemente banche, allora la plusvalenza tende a scomparire. Ma l’analisi costi-benefici dell’operazione deve tener conto anche degli effetti indiretti dell’operazione di ricapitalizzazione.

 

Diverse analisi hanno evidenziato come le iniezioni di capitale pubblico abbiano distorto la concorrenza a sfavore delle banche che non hanno beneficiato di aiuti. Paradossalmente quei banchieri che si sono tenuti lontani dalla speculazione sono stati penalizzati dall’intervento pubblico. Anche per il contribuente/consumatore ciò è stato uno svantaggio, dovendo acquistare servizi finanziari in un contesto contraddistinto da un minor grado di concorrenza. Altre analisi hanno mostrato, inoltre, come i banchieri che hanno potuto beneficiare di capitali pubblici abbiano investito in attività più rischiose, sfruttando la possibilità di disporre di risorse della collettività e non degli azionisti di riferimento.

 

In definitiva, è molto improbabile che per lo stato investire nelle banche sia un affare, come i recenti casi di Royal Bank of Scotland, Allied Banks e Commerzbank sembrano indicare. Quando la cattiva gestione di alcune istituzioni e i deficit di controllo non possono esimere il governo da un intervento per salvaguardare il bene primario della stabilità finanziaria andrebbero quindi adottate alcune accortezze. In primo luogo evitare che chi ha ottenuto vantaggio dalle scelte azzardate dei manager bancari non subisca alcuna conseguenza. Al riguardo non appare condivisibile la scelta del governo italiano di opporsi a qualsiasi forma di sacrificio da parte degli obbligazionisti subordinati di Mps, anche quelli consapevoli del rischio che si stavano assumendo, come richiesto dalla Commissione Europea per dare il via libera all’utilizzo di capitali pubblici. Altro passaggio fondamentale nel momento in cui si interviene con risorse pubbliche sarebbe quello di attuare riforme radicali del sistema bancario, per scongiurare il rischio che crisi di portata sistemica possano verificarsi nuovamente. Questo elemento è mancato nel caso statunitense, tant’è che ancora oggi il problema delle istituzioni troppo grandi per fallire e del sistema bancario ombra non sono stati compiutamente risolti.

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