Matteo Renzi col ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan (foto LaPresse)

Gli ultimi sono già i primi

Renzi non corre dietro alla Consulta e alla favola dei pensionati-penalizzati

Stefano Cingolani
Il governo rimborsa (solo) 3,7 milioni di pensionati. Perché, fuori di retorica, i più colpiti dalla crisi sono giovani&co

Roma. Il Consiglio dei ministri ha varato il “bonus Poletti” con il quale cerca di fare fronte alla controversa sentenza della Corte costituzionale sulle pensioni. Dal primo agosto verranno versati rimborsi una tantum a 3,7 milioni di pensionati secondo un criterio di equità redistributiva: chi percepisce 1.700 euro lordi al mese avrà 750 euro, a chi prende 2.700 euro ne andranno 278. Restano fuori 650 mila persone con assegni superiori ai 3.200 euro. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, cerca di cavarsela con un impatto sostenibile sul bilancio pubblico per evitare la procedura d’infrazione da parte dell’Unione europea. L’anno prossimo si tornerà alla indicizzazione con un meccanismo “più generoso” del passato, ha spiegato Pier Carlo Padoan, ma anch’esso perequativo: cioè avranno di più i pensionati con 1.700 euro (180 euro l’anno) rispetto a quelli con 2.700 euro (appena 60 l’anno). Tuttavia bisogna anche tenere conto che da due anni a questa parte i prezzi al consumo scendono, quindi il potere d’acquisto delle pensioni aumenta; una scala mobile diversa da quella tradizionale, ma anch’essa efficace finché dura. Le opposizioni di destra e di sinistra rumoreggiano. C’è chi grida al furto contro i pensionati i quali, secondo la propaganda dominante, sono i più colpiti dalla crisi. In realtà non è così, anzi. E il rimborso imposto dalla Consulta rischia di gettare benzina sul fuoco del conflitto generazionale. Una difficoltà in più per Renzi il “rottamatore”. I numeri provengono dalle indagini della Banca d’Italia sui bilanci degli italiani. Li ha messi insieme in modo accurato Antonio Misiani, un bocconiano che ha lasciato l’economia politica per la politica tout court. Li ha pubblicati Nens, il pensatoio di Pier Luigi Bersani e Vincenzo Visco.

 

Prendendo un arco di tempo che va dal 2006 al 2012, emerge infatti che i redditi dei pensionati sono stati difesi meglio rispetto a quelli degli operai, degli impiegati con stipendio fisso e dei lavoratori autonomi. Fatto 100 il livello del 2006, il reddito dei pensionati è sceso a quota 97,9; quello degli impiegati a 90,9; quello degli operai a 81,9; e le partite Iva a 79,1. Ciò non vuol dire che i pensionati siano ricchi: nel 2006 avevano un reddito pari alla media che è salito di 14 punti; gli operai che erano a quota 87,1 sono piombati a 82,9; gli autonomi sono scivolati ancora di più in termini relativi; gli impiegati hanno tenuto sostanzialmente la loro posizione. Lo stesso quadro emerge prendendo la ricchezza netta, tenendo conto che quella immobiliare è cresciuta mentre è diminuita quella finanziaria.

 

“I dati confermano – spiega Misiani – che il nostro sistema di welfare, fortemente sbilanciato sul sistema pensionistico, ha protetto i redditi delle famiglie con capofamiglia pensionato”. Sono peggiorate invece le condizioni dei lavoratori attivi. Per non parlare di chi ha perso il lavoro o dei giovani che non lo trovano. L’analisi è del 2014 e la Banca d’Italia sta ancora elaborando i dati degli ultimi due anni, ma non sembra che possano invertire il trend di lungo periodo. Nel 1977 le persone che vivevano in famiglie con ultra 65enni erano considerate a basso reddito: il 38 per cento era compreso nel primo quintile dell’indice di distribuzione.

 

[**Video_box_2**]Quarant’anni dopo, questa quota era ridotta al 18 per cento, mentre sono scivolate nella fascia bassa le famiglie dei quarantenni.

 

La Consulta sostiene che la norma censurata è “lesiva del principio di affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, garantito dall’art. 3 Cost., giacché i pensionati adeguano i programmi di vita alle previsioni circa le proprie disponibilità economiche, con conseguente pregiudizio per le aspettative di vita di questi ultimi”. Eppure le cifre aggregate dimostrano che “le aspettative di vita” degli anziani, per quanto più brevi, sono ancora migliori rispetto a quelle dei loro figli e nipoti. La sentenza si è fatta carico del principio di equità riferito a una categoria, anche se esso viola l’equità dentro l’insieme dei mondo del lavoro e tra i cittadini nel loro complesso.

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