Matteo Renzi (foto LaPresse)

Politiche da Nobel

Cos'è che rende difficile un compromesso sulle pensioni a Palazzo Chigi

Marco Valerio Lo Prete
“Restituiremo parte di questi soldi”, ha detto ieri Matteo Renzi a proposito del rimborso dell’indicizzazione delle pensioni, dopo che il blocco deciso nel 2011 dal governo Monti è stato ritenuto incostituzionale dalla Consulta.

Roma. “Restituiremo parte di questi soldi”, ha detto ieri Matteo Renzi a proposito del rimborso dell’indicizzazione delle pensioni, dopo che il blocco deciso nel 2011 dal governo Monti è stato ritenuto incostituzionale dalla Consulta. Il presidente del Consiglio solitamente preferisce soluzioni radicali o perlomeno a effetto, ma sul dossier previdenziale un compromesso pare obbligato. C’è la necessità di non far deragliare i conti pubblici, innanzitutto, come ha ricordato più volte in questi giorni a Renzi il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, colui che più si è prodigato finora per strappare margini di flessibilità fiscale a Bruxelles. E rimborsare tutto il dovuto a milioni di pensionati – quelli con assegni superiori a tre volte la minima di 500 euro – costerebbe fino a 13 miliardi; troppo per non allarmare l’Ue. “Stiamo studiando come fare a rispettare la sentenza e, contemporaneamente, l’esigenza di bilancio”, ha detto Renzi. Lunedì ci sarebbe la prima occasione utile: un Consiglio dei ministri già fissato, con ordine del giorno da precisare. E mentre da Via XX Settembre smentiscono divergenze tra Padoan e Renzi sulla tempistica del decreto-rimborso – il primo vorrebbe definire tutto il prima possibile, il secondo rimandare a dopo le elezioni regionali – è evidente che a Palazzo Chigi non ragionino soltanto con i criteri prediletti dalla Ragioneria di stato e dagli uffici legali del Tesoro. Se si restituirà solo “una parte” dei soldi, a qualche pensionato rimarrà l’amaro in bocca; quindi meglio superare il voto regionale. D’altra parte Renzi non intende passare per il difensore dei “diritti acquisiti”, quelli degli odierni pensionati meno poveri a discapito di altri pensionati e giovani.     

 

Ieri il premier ha avvertito: “Questi soldi, purtroppo, non andranno ai pensionati che prendono 700 euro al mese”. Come dire: mi hanno obbligato i giudici della Consulta, ma venderemo cara la pelle. In questo senso una soluzione di compromesso, magari dilazionata nel tempo per scavallare le elezioni regionali, tornerebbe invece utile: l’esecutivo infatti potrà ammantare con motivazioni di giustizia sociale la decisione di rimborsare in toto soltanto gli assegni pensionistici più bassi, e poi assottigliare il rimborso via via che l’assegno pensionistico sale.

 

Infine però c’è l’istinto più “rottamatore” del premier, quello che lo vorrebbe per definizione schierato contro i diritti acquisiti, siano essi quelli dei sindacalisti che monopolizzano la concertazione, degli insegnanti che rifiutano la valutazione, o appunto dei pensionati con redditi più alti e puntellati dal vecchio sistema retributivo pre-Fornero e che vengono tutelati pure dalla Consulta. Ieri Alberto Brambilla, docente alla Cattolica di Milano e già sottosegretario al ministero del Welfare, ha tentato di stimolare il premier usando proprio questa carta: “Solo Renzi, da leader intelligente qual è, può attuare una soluzione radicale giocando la partita anziani-giovani”. Brambilla propone di estendere la deindicizzazione delle pensioni pure al 2012 e al 2013, ma rendendola più graduale e progressiva. “I risparmi che deriverebbero da questa misura andrebbero finalizzati e incardinati in un Fondo per il sostegno all’occupazione degli under 29”.

 

[**Video_box_2**]La ragion di stato porta Renzi verso una soluzione di compromesso per rispettare la decisione della Consulta, ma il cuore continua a suggerire una via d’uscita più radicale. Allora sarà utile ascoltare anche la proposta di Marialuisa Ceprini, economista del Mit di Boston e coautrice dei più noti studi sulla previdenza del premio Nobel Franco Modigliani (1918-2003). Ceprini, in una conversazione con il Foglio, suggerisce all’esecutivo di prendere la palla al balzo per andare oltre la riforma Fornero. Ma non era quella una riforma finalmente coraggiosa, tale da esserci invidiata da tutti in Europa? Ceprini ricorda come lei stessa e Modigliani in passato si confrontarono proprio con Elsa Fornero (allora un’accademica) e il suo maestro Onorato Castellino. Ceprini e Modigliani, però, già al tempo insistevano sul fatto che “più che una riforma delle pensioni è necessaria una riforma del finanziamento delle pensioni”. Con l’attuale sistema detto “a ripartizione”, i lavoratori di oggi pagano i contributi non per se stessi quando diventeranno inattivi, ma per gli attuali inattivi. Il reddito dei giovani di oggi diventa un reddito per i più anziani di oggi. Nel sistema “a capitalizzazione” sostenuto da Ceprini, invece, i contributi dei lavoratori di oggi si accumulano per costituire un capitale che viene investito e può generare il reddito necessario per il momento in cui i giovani lavoratori di oggi saranno invecchiati. “In questo momento nel dibattito pubblico in molti tendono a dare la colpa ai pensionati più ricchi, ai pensionati d’oro, eccetera, ma la colpa è del ‘sistema’ attuale e non degli individui – dice l’economista che da 25 anni vive e lavora negli Stati Uniti – La sentenza della Consulta andrà rispettata. La classe dirigente italiana piuttosto dovrebbe chiedersi: com’è che non abbiamo agito con coraggio prima?”. In quest’ottica, neppure la riforma Fornero basta: ha accelerato il passaggio dal metodo di calcolo retributivo delle pensioni a quello contributivo, ma è rimasta nell’ambito dei sistemi a ripartizione. Secondo la Ceprini, il modello a capitalizzazione eviterebbe il “rischio bancarotta” che nel lungo periodo correrà comunque il sistema previdenziale italiano, considerato che continua a restringersi il numero di lavoratori che pagano i contributi e ad aumentare quello degli italiani che ricevono una pensione. L’idea che Ceprini e Modigliani hanno dettagliato pure con modelli econometrici e previsioni statistiche è essenzialmente quella di un modello a capitalizzazione pubblico. Quando si dice “a capitalizzazione”, s’intende che i contributi pagati dai lavoratori dovrebbero convergere – in misura importante, seppure non totale – all’interno di un fondo, per essere “investiti nel mercato aperto. Invece che restare nelle casse delle imprese sotto forma di Tfr, i contributi sarebbero convogliati in attività obbligazionarie o azionarie più redditizie, garantendo un vitalizio pensionistico più pingue. Allo stesso tempo i profitti ottenuti con questi investimenti andrebbero gradualmente ad abbattere i contributi obbligatori, favorendo la creazione di posti di lavoro”. A differenza del classico modello “cileno”, teorizzato negli scorsi anni da alcuni economisti liberisti dell’Università di Chicago, Ceprini e Modigliani hanno sempre preferito che il fondo pensione principale restasse a carattere pubblico e “gestito da una commissione di esperti nominati dalle istituzioni, esperti tecnicamente e moralmente all’altezza”, dice oggi l’allieva dell’unico Premio Nobel per l’Economia di origini italiane, uno che si autodefiniva “neokeynesiano” ma evidentemente – alla luce delle sua attenzione per il “rischio bancarotta” delle pensioni italiane – non si consolava affermando, come Keynes, che “nel lungo termine siamo tutti i morti”.