Se 93 mila vi sembran pochi

Calma col disfattismo, ma un pil così floscio non crea occupazione

Renzo Rosati
Il tasso di disoccupazione delude (torna al 12,7%). Il Jobs Act resta una chance con effetti ancora in parte da calcolare. Quei malintesi governo-Istat. Incompatibilità statistiche sui nuovi contratti. Barclays vede oltre i 93 mila occupati in più.

Roma. La matematica non è un’opinione, tantomeno se si parla di lavoro, occupazione, disoccupazione: gli indici più immediati e popolari della salute di un paese. Ma il ballo di numeri in Italia nei primi due mesi 2015 tra Istat e governo può far girare la testa. E non far capire se il lavoro torna o no, se funzionano gli sgravi fiscali e contributivi in attesa del Jobs Act (operativo dal 7 marzo) – ovvero “la cosa più di sinistra che abbia fatto” a detta del premier Matteo Renzi, intervistato dal New York Times, che ha l’ambizione di  “dare più diritti alla gente, dare possibilità a una nuova generazione” e superare “un apartheid nel mondo del lavoro”. E in attesa della prevista timida ripresa del pil.

 

Partiamo dagli ultimi fotogrammi per ricostruire il film. Ieri mattina l’Istat ha diffuso i dati di febbraio: tasso di disoccupazione in risalita al 12,7 per cento, “dopo il forte calo di dicembre dal 13,2 al 12,7 e l’ulteriore diminuzione di gennaio al 12,6”. Intanto sul quotidiano confindustriale Sole 24 Ore comparivano le cifre del ministero del Lavoro: a gennaio e febbraio 2015 le attivazioni di contratti a tempo indeterminato (con sgravi governativi) sono state 303.648 contro 224.721 negli stessi mesi del 2014. Sono i 78.927 contratti fissi in più che hanno fatto esultare Renzi. Anche se alcuni osservatori non hanno mancato di sollevare dubbi, vista la natura incerta di quei posti aggiunti: nuovi contratti o soltanto trasformazione di vecchi rapporti di lavoro a termine?. Poi le solite polemiche di Susanna Camusso e Laura Boldrini, per non parlare delle reazioni variegate del centrodestra (dall’invito alla cautela fino alla richiesta di dimissioni del ministro del Lavoro Giuliano Poletti).

 

Sempre sul Sole 24 Ore l’editorialista Luca Ricolfi aveva invitato alla concretezza: “E’ più inequivocabile il crollo del 41,2 per cento delle ore di cassa integrazione”. Dato positivo, certo. Ma soprattutto è importante capire quanti nuovi contratti ci fossero in più rispetto alle cessazioni, e poi quante le trasformazioni dei rapporti a termine. La risposta, sempre fonte ministero: 45.703 è il saldo netto sul primo punto (era negativo per 18.943 nel primo bimestre 2014), mentre di contratti a termine a gennaio e febbraio ne sono stati attivati 847.487 rispetto a 491.090 cessazioni, cioè più 356.397; dunque nessuna mera stabilizzazione per acchiappare i sussidi; anzi un robusto aumento.

 

L’Istat però insiste che i suoi dati “non sono confrontabili con quelli del governo sulle 79 mila attivazioni di nuovi contratti, che sono di diversa natura e non necessariamente significano nuovi occupati. Possono anche essere transizioni dal tempo determinato”. Ipotesi a sua volta smentibile dai numeri governativi: a gennaio e febbraio il saldo tra nuovi contratti e cessazioni è stato positivo pure per altre tipologie come apprendistato (più 4.817), collaborazione (42.974), altro ancora (8.747). In totale, dice il ministero, nei primi due mesi 2015 i nuovi contratti di ogni tipo sono stati 1.382.978, con saldo positivo di 458.683: saldo che nei primi due mesi 2014 era stato di 379.253. Dunque? Osserva l’economista e deputato del Pd Carlo Dell’Aringa, già sottosegretario nel governo di Enrico Letta, che “l’Istat tiene conto dell’intera forza lavoro”. Per stabilire il tasso di disoccupazione, l’Istituto di statistica definisce così la forza lavoro: “Le persone tra 15 e 74 anni che hanno effettuato almeno un’azione attiva di ricerca del lavoro nei 30 giorni che precedono l’intervista e sono disponibili a lavorare entro le due settimane successive”. Un altro indicatore è il tasso di occupazione, quest’ultimo rilevato con standard internazionali: “Il rapporto tra occupati e popolazione tra 15 e 64 anni”. In base a questi criteri gli occupati sarebbero diminuiti di 44 mila a febbraio, ma aumentati di 93 mila sullo stesso mese 2014 (più 0,4 su base annua). E quest’ultimo, secondo Palazzo Chigi, è un dato positivo oltre che indiscutibile. Anche se le due entità – governativa e Istat – non appaiono confrontabili. E forse a marzo il divario e le polemiche si acuiranno: perché (dati ministeriali) nello stesso mese 2014 i nuovi contratti a tempo indeterminato furono 193.675, un dato superiore a quello dei mesi di gennaio e febbraio 2015. E perché entrerà in campo il Jobs Act. A meno che alle nuove regole, pur necessarie, non si aggiungano segnali di ripresa vera, non di uno o due decimali.

 

Un rapporto sull’Italia diffuso ieri da Barclays – titolo: “Il mercato del lavoro delude oggi ma ha una possibilità già da domani” – afferma: “Restiamo fiduciosi sul mercato del lavoro italiano, ritenendo che la riforma del governo, il Jobs Act, abbia la possibilità di combattere la disoccupazione e ridurre le differenze”, richiamo alla discriminazione dei lavoratori di serie A o B, ovvero all’apartheid renziano. “Fighting chance”, è il termine piuttosto rock usato da Barclays. Ma in Europa la disoccupazione è scesa in media al 9,8 per cento, livello più basso dal 2011. E in Gran Bretagna, invidiabile scorza anglosassone, è al 5,7, al minimo dal 2008: lì però il pil trimestrale è stato rivisto al rialzo dello 0,6 per cento, quello annuale al tre. E parliamo ancora del 2014. Per l’Italia invece l’Istat parla di “rafforzamento dei segnali positivi nel primo trimestre” (più 0,1 per cento previsto). Insomma, non ancora “fighting”.

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