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Nessuna vera ripresa o #buonascuola senza alternanza tra scuola e lavoro

Michele Tiraboschi
Davvero perde colpi il celebre modello duale tedesco che tanto ha contribuito alle politiche di contrasto alla disoccupazione giovanile? I dati che vengono da Berlino sembrano indicare una minore disponibilità da parte delle imprese a ospitare apprendisti anche perché formare un giovane è un impegno gravoso.

Davvero perde colpi il celebre modello duale tedesco che tanto ha contribuito alle politiche di contrasto alla disoccupazione giovanile? I dati che vengono da Berlino – di cui ha scritto il Foglio la scorsa settimana – sembrano indicare, per ora, una minore disponibilità da parte delle imprese a ospitare apprendisti anche perché formare un giovane è un impegno gravoso. Tuttavia, paragonati alle statistiche italiane, quegli stessi dati raccontano di un modello ancora vitale e certamente determinante per le sorti della economia tedesca. Nel nostro paese i giovani coinvolti in percorsi di alternanza scuola-lavoro, la via italiana al sistema duale, sono solo il 10,7 per cento del totale. Questi pochi fortunati invero non vivono una vera e propria esperienza formativa, bensì una sorta di “vacanza premio”: la grande maggioranza dei periodi in alternanza, infatti, dura meno di quindici giorni ed è appannaggio dei ragazzi più meritevoli (in termini di rendimento scolastico). Si tratta di studenti principalmente iscritti a scuole professionali (43,4 per cento) e tecniche (37,3), poiché ai licei è risparmiato il duro e squalificante contatto con il mondo del lavoro.

 

Perché il nodo principale è proprio questo, impietoso confronto statistico a parte: il vero ritardo rispetto ai paesi virtuosi in ambito di alternanza formativa o, meglio, integrazione scuola-lavoro è tutto culturale e valoriale, prima ancora che normativo o istituzionale. Come ha sottolineato Giuseppe De Rita nella prefazione alla “Storia della formazione professionale in Italia” di Nicola D’Amico, nel nostro paese storicamente “le posizioni culturali politicamente più forti (la sinistra del Pci e la componente più cattolicamente rigida della Dc)” hanno concordato nel “negare ogni validità di una formazione orientata al lavoro e alle capacità professionali”. Questa coincidenza ha fatto sì che vincesse “la sottovalutazione – culturale, politica, operativa – della formazione legata al lavoro, a tutto vantaggio di un primato della scuola, nei suoi diversi gradi e livelli”. Così dalla fine degli anni Sessanta in poi è andata sempre più affermandosi una concezione di lavoro come fatica e alienazione, sofferenza giustificata dalla necessità di sopravvivere, ma non certo luogo di crescita della persona e soddisfazione. Perché mai fare precocemente incontrare ai giovani una realtà così ingiusta? Una idea fortemente negativa di impresa che ha osteggiato la formazione in ambiente di lavoro e che, del resto, contribuisce a spiegare la vocazione ancora oggi largamente conflittuale del nostro sistema di relazioni industriali.

 

Di conseguenza, più o meno inconsciamente, nel paese del miracolo della piccola imprenditoria e in una delle culle della formazione tecnica e professionale (ben prima dei tedeschi!), i più si sono convinti che l’impresa sia solo il palcoscenico dello sfruttamento della persona che lavora. Questa concezione si è consolidata fino a riuscire a conformare l’impianto della formazione italiana e le norme del diritto del lavoro, tutte costruite per difendere il “contraente debole” (il lavoratore) dai soprusi del “padrone” (l’impresa). Non è un caso che l’alternanza scuola-lavoro e l’apprendistato per i minorenni abbiano trovato posto nella normativa italiana solamente nel 2003 (leggi Biagi e Moratti).

 

[**Video_box_2**]A dodici anni di distanza da quel progetto di riforma che puntava sulla integrazione tra scuola e lavoro non possiamo che sperare che la “Buona scuola” presentata dal governo segni non più l’affermazione normativa dell’alternanza, quanto la consapevolezza della centralità di una formazione reale e in situazione di compito per l’occupabilità dei nostri giovani. L’integrazione scuola-lavoro è funzionale non solo a contrastare la disoccupazione giovanile ma prima ancora a costruire un sistema dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro nell’ottica della produttività e della qualità del lavoro. Si pensi al settore della manifattura: negli ultimi tempi si rincorrono previsioni di un ritorno delle fabbriche, grazie alle nuove tecnologie della Industry 4.0, che attraverso lo sviluppo dell’automazione richiederà sì meno lavoratori, ma superiori in quanto a competenze personali. Queste competenze non si acquisiscono solo grazie a un percorso teorico, ma hanno bisogno di esperienza sul campo (on the job) per maturare. Non c’è da stupirsi, quindi, che proprio in Germania la manifattura non sia crollata durante la crisi, ma anzi sia diventata la più avanzata per utilizzo delle nuove tecnologie di produzione. Un sistema educativo che senza pregiudizi ideologici garantisce l’acquisizione del “saper fare” moderno ha fornito alle imprese lavoratori-professionisti in grado di far funzionare al meglio macchinari complessi e avanzati.

 

L’apprendistato a scuola è importante, quindi, non solo culturalmente e non solo in termini sociali per dare prospettive ai nostri giovani, ma anche per sostenere e rilanciare il sistema produttivo. Il metodo dell’alternanza scuola-lavoro non è uno stratagemma pedagogico per la formazione dei profili medio-bassi o per “recuperare” i dispersi della scuola indirizzandoli a percorsi di serie C, ma la soluzione più efficace anche per la selezione di profili professionali di alta specializzazione. Con buona pace di noi professori universitari, la classe dirigente del futuro sarà sempre meno selezionata in base alla Università frequentata e sempre più giudicata per quello che concretamente sa fare: per la trasversalità, multidisciplinarietà e praticità delle proprie competenze ed esperienze agite. Come ha recentemente detto anche Nicola D’Amico, la ricchezza delle nazioni, con tutto il rispetto, la fanno più gli artigiani e gli operai specializzati che gli avvocati e, in ogni caso, è sempre meglio un capofficina felice che un laureato umiliato.

 

Michele Tiraboschi è Ordinario di Diritto del Lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia. Centro studi Marco Biagi-Adapt

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