(foto Ansa)

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I tartinari del Salone del Mobile

Michele Masneri

In Centrale o nei caveau, in fila per un calicino. Poi Venezia. Passeggiate milanesi

Milano. Edizioni, riedizioni, citazioni, rigenerazioni (urbane), tante tante collaborazioni. E indigestioni. Tutti in coda per entrare a bere calicini, i tartinari del Fuorisalone si confondono con le folle che ormai fanno code insensate per tutto (da Pavé, pasticceria vagamente californiana, la fila gira intorno all’isolato, come a San Francisco). Su viale Monza una gelateria espone un cartello forse ironico o forse no, “Gelato Week”, con QR code. Nella ricerca spasmodica di location sempre più bizzarre, uffici stampa e pr le provano tutte, ma tutto sembra già visto.  

 

Anche se stupisce l’ex caveau dell’Unicredit in piazza Cordusio, tra l’Ambrosiana e il primo caffè Starbucks che contribuì e segnalò la rinascita di Milano insieme al palmeto su piazza del Duomo. Lì si tiene il party di Door, l’ex “D Casa”, insomma il supplemento abitare di Repubblica diretto da Emanuele Farneti, tra le antiche cassette di sicurezza. Qualcuno coi capelli bianchi le riconosce pure, “ah, qui papà mi portava da piccolo”, “lì la nonna metteva le sterline”, e giù sospiri. Bei tempi. “Risemantizzazione” e riuso di altri luoghi, le edicole, visto che i giornali nessuno li compra più, eppure destano sempre feticismi, come i vinili. Eccole trasformate in altro, vetrine di vaghi zeitgeist, talk, presentazioni, magari di riviste (facendo tutto il giro, semantico). Come quella a Lambrate dove viene presentato il magazine Urbano dedicato ad architettura e urbanistica, giallo. O come il “Design kiosk” in piazza della Scala in collaborazione con Corraini Edizioni (quelle modenesi chic che pubblicano Bruno Munari). Vasto programma di talk fra cui Piero Lissoni, Cino Zucchi ecc. ecc. Sotto i ponti della stazione Centrale Dropcity espone invece la rivista di architettura Panteon su uno stand di luccicante acciaio inox disegnato appositamente dai romani architetti di War (Warehouse of Architecture and Research) e ispirato alle forme della Baker House di Alvar Aalto, il dormitorio per gli studenti del Mit di Boston. Si chiama Ateneum, nome del museo d’arte di Helsinki, proprio in omaggio al maestro finlandese.

 

Da Milano al mondo globale, vago senso di decadenza distopica dai grandi poster appesi nelle piazze nevralgiche del centro con la nuova Alfa Romeo che però non si chiama più Milano ma Junior, in una vicenda che sarebbe piaciuta a Totò e Peppino. Il governo litiga con Stellantis e gli dice: non la potete chiamare Milano la nuova macchina se la producete in Polonia, la Stellantis li prende in parola e mica rimpatria la produzione in Italia, no, cambia nome alla macchina (era successo solo una volta, ricorda qualcuno, con la Ritmo, che dovette cambiare nome perché in certi mercati quella parola evoca ciclo mestruale). Siamo insomma al situazionismo puro. Ma intanto tutti, stravolti e con la tartina ancora sullo stomaco, si fiondano a Venezia, per l’anteprima della Biennale anticipata di una settimana. Alberghi tutti pieni, c’è chi ha trovato qualcosa a Mestre, gli chic milanesi che hanno casa sul Canal Grande sono sopraffatti da ospiti scrocconi, e rimpiangono di non essere rimasti a Milano. Tutti comunque si buttano a studiare il meteo, quando arriverà il tanto annunciato crollo delle temperature? Giuseppe Caprotti, erede dell’Esselunga, sale su un Frecciarossa, con porta abiti e impermeabile al braccio, previdente.

 

Il vero Fuorisalone insomma quest’anno è il treno per Venezia. Lo ha capito Remo Ruffini che in Centrale ha ospitato una colossale cena tra biglietterie e lounge. La stazione era già stata usata varie volte per sfilate e film sulle sfilate, da Moschino e dai Vanzina per “Sotto il vestito niente”, ma mai per una “dinner” così “impressive”, come sottolinea un invitato sospirando sulla fortuna di Ruffini, uno dei grandi Gatsby della nuova Milano. Dopo aver fatto sedere i ricchi milanesi e non a una sfilata che già ha fatto epoca tra i ghiacci engadinesi, ora li mette qui al caldo, in cento, placé in sala d’aspetto, tra fotografie enormi in bianco e nero di tale Jack Davison, mentre fuori ci sono opere del solito Jr che come un Christo virtuale dei nostri tempi bombarda grandi mammozzoni urbani, ed ecco la Centrale che sembra colpita da un meteorite. Dentro in stazione intanto vedi tutti, incontri tutti, parli con tutti, in partenza per la Biennale. Nessun pr stranamente ha colto l’opportunità, per chi si deve sdoppiare con la Serenissima: non un binario rebranded by Dolce & Gabbana, non una Freccia Gucci o un Italo by Campari (con fermata intermedia a Verona, per il Vinitaly). Neanche uno straccio di snack dolce o salato by Marchesi (Prada). I creativi milanesi, è evidente, non sono più quelli di una volta. 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).