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Letture

Finalmente Angela, una donna insopportabile che ci conosce davvero

Marco Archetti

Ecco un romanzo non da tavolino, che va letto perché è vivo e sgorga vivace dalla materia dell’esperienza umana: "Il fuoco che ti porti dentro" di Antonio Franchini

Finalmente una donna insopportabile. Che sollievo. E finalmente un romanzo non da tavolino da salotto in vetro ovale, ma un romanzo che va letto perché è vivo e sgorga vivace dalla materia dell’esperienza umana. E fa il mestiere che deve fare: aiutarci a guardare, cioè  guardare fino in fondo. Vien da chiedersi cosa leggano di solito coloro che hanno definito scioccante un incipit che suona così: “Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza”. Poi lo capisci da un dettaglio: si sono persi tutto il resto. Perché “Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini (Marsilio, pp. 223, euro 18) non è un romanzo autobiografico e monocorde caricato sulle spalle di un solo personaggio, ma una sonata tragica e comica sulla vita, la morte, la famiglia e le prossimità – con una Napoli mai oleografica, altro evviva.
 

Certo, c’è lei, Angela. E Angela è una madre ingombrante e sfrenata, rancorosa e abnorme, insopportabile e turpiloquente, odiatrice e sbraitante, divoratrice e logorroica, invasata zappatrice meroliana con un’ossessiva antipatia per Angela Merkel e un’intermittente simpatia per il duce (quel Musulino che “faceva buono qualunque cosa” poi “lo infessette Claretta”). Angela è capace di vedere le altre donne solo sub specie zoccolante, gli uomini, invece, tutti cretini oppure servi, spesso inaffidabili e nei casi migliori raggiratori, ma del resto va così, è nel raggiro che si determina l’individuo, le forze del male calano mannaie e tagliole e lui cerca di fare quel che può, o meglio, quel che deve, tutto inevitabile, tutto ineluttabile… Poi sì, ci sono le rare eccezioni e i conclamati vanti, tipo Monaldi che la operò, Monaldi il professore, quello che ha dato il nome all’ospedale pneumologico di Napoli subito dopo averla corteggiata. “Non sapevo di aver operato una ragazza così bella…”.
 

Angela Izzo è una che, come racconta l’io che dice io nel romanzo di Antonio Franchini, quando cominciava a parlare ti sfiniva, ti annichiliva, ed era un attimo ritrovarsi a succhiare aria da una fessura mentre lei imperversava e dilagava tremenda, fatua e massacrante, una sparachiodi vivente, una sempre al centro del palco, sempre in scena a recitar sé stessa nell’energia disperata di essere un personaggio. Una che entrava nella vita dei figli con l’obiettivo di raderla al suolo, una che se ne stava sempre chiusa in casa ma diceva di conoscere il mondo, anzi, non diceva di conoscerlo, lo conosceva e basta, e questo era un fatto – Angela e la sua vita di fatti che avevano in lei l’unico fondamento. Insomma, Angela Izzo in tutto il suo fulgore: madre mostruosa e stupendo personaggio letterario.
 

Ma ecco. C’è questo personaggio di statura vesuviana che avrebbe potuto prendersi tutto il romanzo, sequestrarlo e, in un certo senso, spolparlo da dentro. Però no. Quel che accade è l’esatto contrario: la qualità narrativa di Franchini fa sì che il racconto non venga risucchiato dalla sua più pregevole (ri)creazione narrativa, ma ne cresca. E infatti tra queste pagine c’è molto altro. Per esempio, un grande padre. Che tace e chissà se acconsente, ma forse sì, tant’è che l’unica volta in cui va a ricuperare il figlio perché, fuggito, torni a casa, lo fa come uno che si presta perché non può non prestarsi. Un padre di cui si sa poco, più vecchio di Angela, con dentro cenere e silenzi, non fuoco. Quale segreto ha plasmato la sua vita? Quale amarezza? Poi c’è zio Francesco, fratello minore, napoletano del Friuli, avvocato di successo, che fuma, beve, ascolta e cucina (mai per sé). Il fratello maggiore è morto, ma accidenti se c’è. E c’è il racconto di come nelle famiglie ci si passava la memoria degli avi insieme a un’idea della vita che era fare quel che bisognava fare e stop, senza clinamen o grilli – il senso scomparso di un’ubbidienza alle cose. Di sfondo, ma solo di sfondo, l’autore e il suo romanzo di formazione di uomo del sud cresciuto al nord da uomini del sud. Nessun campanile, nessun lirismo: le cose, l’immensa solitudine, i dubbi in ritardo, le domande inespresse. E lei, mater amarissima, che muore e resta un punto di domanda. Perché Angela è tutta la vita che non comprendiamo, l’unica vita che sa davvero qualcosa di noi.

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