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la riflessione

Il libero arbitrio che plasmò l'occidente è ridotto a libertà di fare ciò che ci piace

Sergio Belardinelli

Impieghiamo energie esorbitanti in battaglie culturali su temi che attengono narcisisticamente soltanto a ciò che noi, e noi soltanto, sentiamo come buono e giusto. E così finiscono per trionfare concezioni che dell’uomo non sanno più cosa farsene

Il libero arbitrio rappresenta uno dei fattori che più hanno favorito l’ascesa della cultura occidentale. Il fato, la natura e la necessità che incombevano sulla maggior parte delle antiche civiltà sono stati quanto meno addomesticati in occidente grazie alla convinzione che gli esseri umani, pur con tutte le difficoltà, sono comunque liberi di seguire ciò che detta loro la coscienza e quindi, almeno in parte, artefici del loro destino. Come ci ha insegnato Rodney Stark, questa convinzione ebbe “conseguenze comportamentali” notevoli, la più importante delle quali fu forse la tendenza a non rassegnarsi ad accettare le cose come stanno, ma a tentare di migliorarle. La scienza e la tecnica occidentale debbono sicuramente molto a questa tendenza. Per non dire della valorizzazione del diritto dell’individuo alla libera scelta, che sta alla base del rifiuto da parte dell’Europa medievale della schiavitù nonché successivamente della nascita delle istituzioni dello stato di diritto. Ragioni più che sufficienti, dunque, per essere seriamente preoccupati della crisi in cui si trova oggi in occidente la consapevolezza della libertà. 


Ridotta a libertà di fare ciò che ci piace, la libertà ha progressivamente perso di vista la responsabilità. Libertà non significa più seguire ciò che detta la coscienza, bensì ciò che istintivamente ci attrae. Non la esercitiamo più perché vogliamo perseguire un’idea di bene per noi e per gli altri, una sorta di pratica eroica, considerate le difficoltà, gli imprevisti con i quali sempre bisogna fare i conti nell’esercizio di questa libertà; la esercitiamo piuttosto per soddisfare i nostri desideri, considerati come un diritto che deve essere garantito dalla politica a ogni singolo individuo e magari allargato, grazie all’apparato scientifico tecnologico, ad ambiti fino a ieri inimmaginabili e, per di più, in un mondo fondamentalmente insensato.  


Questa singolarizzazione estrema della libertà ha prodotto un esito paradossale: da una parte, la crescente rinuncia a fare con responsabilità quel poco che è in nostro potere per orientare al meglio il nostro destino e quello dei nostri simili; dall’altra, un timore paralizzante di fronte all’incertezza, quasi che l’incertezza sia diventata scandalosa in un mondo dominato dalla scienza e dalla tecnica. D’altra parte, se il mondo è soltanto la risultante casuale e priva di senso di processi evolutivi per i quali, poniamo, l’ibridazione uomo macchina grazie alle cosiddette intelligenze artificiali è soltanto l’ultimo stadio di sviluppo, che senso può avere la libertà? Un mondo siffatto è ovvio che può essere compatibile con una libertà ridotta a soddisfazione di desideri, ma rende del tutto insignificante la consapevolezza della libertà, il sapere perché voglio fare una determinata cosa piuttosto che un’altra. E pensare che una certa modernità tecnologica era entrata fastosamente in scena proprio all’insegna di un uomo che si apprestava a diventare finalmente padrone del proprio destino.

  

Ma evidentemente in quel desiderio c’era qualcosa che non andava. C’era di sicuro la sopravvalutazione di una ragione ritenuta capace di vincere finalmente l’ignoranza e la superstizione, riducendo il mondo a una sostanza omogenea sotto controllo scientifico, ma in questa volontà di eliminare dal mondo l’incertezza c’era anche una forma di cecità rispetto all’incertezza prodotta dalla pluralità e dalla libertà degli uomini. E forse è per questo che stiamo essiccando la libertà, riducendola alla semplice libertà di fare ciò che ci piace, a tutto vantaggio di concezioni del mondo che dell’uomo non sanno più che farsene. 

 
Non è un caso che impieghiamo ormai energie esorbitanti in battaglie culturali su temi che attengono narcisisticamente soltanto al nostro emotivismo identitario, ciò che noi, e noi soltanto, sentiamo come buono e giusto.Tutta la cosiddetta cancel culture è espressione di questo narcisismo, una malattia che ha poco a poco infettato le nostre élite politico-culturali, dietro la quale sta precisamente il rifiuto dell’umanesimo occidentale. Lo stesso si può dire del multiculturalismo, declinato come indifferenza nei confronti delle differenze, dell’antiumanesimo insito nell’ambientalismo apocalittico, del genderismo che cerca in tutti modi di affossare la famiglia come cellula fondamentale della società, e si potrebbe continuare. 

 
Natura, ragione e libertà hanno smesso di illuminarsi reciprocamente. Di conseguenza non sappiamo più distinguere tra la natura dell’uomo, quella di un animale e quella di una pianta, conferendo a ciascuna forma di natura il suo grado di dignità, né sappiamo più comprendere in che senso uomini, piante e animali partecipano di una medesima natura. Quanto alla libertà, come ho già detto, non c’è più alcun limite, alcuna misura, che essa, aiutata dalla ragione e dalla responsabilità, sappia cogliere nella natura delle cose; la realtà e quindi gli altri sembrano esserle sempre più indifferenti; conta soltanto il soddisfacimento dei nostri singolarissimi desideri. Ma questo non ha nulla a che fare con il libero arbitrio della tradizione occidentale.

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