Ivo Andric - foto vai Getty Images

Letture

L'atonalità kafkiana mormora imperterrita nella prosa di Ivo Andric

Marco Archetti

In libreria c’è "Il caso di Stevan Karajan" (Bottega Errante). Un piccolo manuale per scoprire il genio e il peso letterario del suo autore, capace di rivelare la tragica follia dell'esistenza umana attraverso il racconto di semplici storie

Assenza di passionalità. Ecco ciò che fa di Ivo Andric il grandissimo romanziere che è – romanziere solo dopo i cinquant’anni e per tre volte: Il pronte sulla Drina, La cronaca di Travnik e La signorina, tutti pubblicati nel fatale 1945. Prima, solo versi e racconti. E galera. Questa atonalità kafkiana mormora sempre nella prosa di Andric, uno capace di raccontare indifferentemente turchi e francesi, generali e contadini, analfabeti e sapienti, visir e invalidi. E di scrivere una poesia che, a quella prosa, somiglia in tutto e per tutto: due le raccolte, medesimo il tono privo di enfasi, composto, nobilmente feriale. I confini geograficamente circoscritti in cui tutte le storie di Andricć si svolgono sono l’inevitabile traduzione spaziale della sua idea di mondo narrabile, eppure mai il molteplice è riuscito a esprimersi e snodarsi meglio che nella sua letteratura. E – capolavoro per cui ogni vero scrittore ucciderebbe – la sua prosa senza passione ha offerto i riverberi più formidabili alla straziante tragicità di certi destini. Il molteplice nel circoscritto e la tragedia nell’antitragedia: come lezione di scrittura ce n’è per meditare anni interi.
 

"Il caso di Stevan Karajan" (Bottega Errante edizioni, 172 pp., 17 euro) è un piccolo manuale del tono – sempre il medesimo – e della ricchezza – sempre vasta – dello spartito di Ivo Andric, e chi già lo ama ne ritroverà tutte le ragioni. Il titolo della raccolta parla di uomo fortunato cui la sorte ha elargito un pieno consenso permettendogli una trasformazione repentina, da modesto impiegato di banca che è “venuto a Belgrado da qualche località a nord della Sava” a uomo d’affari. Da lì in avanti, solo successi: patrimonio in perenne crescita, profitti, matrimonio, insomma, Stevan era uno che avrebbe potuto continuare così all’infinito. Ma poi la Storia ci ha messo del suo, e vennero i bombardamenti tedeschi di Belgrado del 1941, calamità e sofferenze e cannoneggiamenti di “cittadini pacifici e onesti come fossero dei banditi”. Si rompono le uova (d’oro) nel paniere e le macerie riducono in macerie anche Stevan, incapace di accettare la crudezza del corso delle cose umane, cioè le sue – gli esseri umani di quando diciamo “succede agli esseri umani” sono sempre gli altri.
 

Esemplare anche “Nella fattoria statale”, del 1959, storia della sorda sofferenza di Mikan che un giorno, dopo aver innocentemente giocato con una bambina, viene sospettato dall’amico Era (più anziano e di cui è succube) di “spassarsela coi minori” e minacciato indirettamente, perché “queste cose prima o poi le si paga”. Ma Mikan le paga già, scontando una colpevolezza che non c’è – ancora Kafka – e in nome della quale egli stesso crede di meritare la pena adeguata. Che non sarà adeguata, anzi, sarà assurda, una corona di spine su ogni pensiero, tutta la vita incatenato a un’Ombra. E così Mikan non vivrà più, perseguitato dal sé stesso che ha compiuto ciò che non ha compiuto, sotto lo sguardo (che non guardava) dell’amico crudele. Solo la morte di Era svelerà la tragedia ridicola dell’esistenza – e non solo quella di Mikan. Bellissimo anche “Sogno e realtà sotto il piccolo carpino”, ambientato proprio lungo il corso della Drina.
 

Ma straordinario “L’inferno”, la vicenda di un console si ritrova imprigionato in una “nera commedia”:  viene condannato a morte e tuttavia, inspiegabilmente, accetta la tremenda sentenza. Mentre tutti piangono, lui sorride. “Boia, fate il vostro lavoro!” gli esce dalla bocca. Esecuzione avvenuta e immediato trasferimento – il console ne è certo – in paradiso. Che si rivela essere una stanzetta miserevole e grigia, con una porticina socchiusa, tra i cui battenti si intravede solo oscurità. Attesa infinita. Ma perché? E di cosa? Il console impazzisce, mentre gli si affacciano alla coscienza le ombre del passato. “Chi aveva escogitato quella porta socchiusa? E per tormentare lui? Non aveva calunniato, mentito, diffamato. Non si era comportato da spilorcio, non aveva rubato”. E dunque? Dunque, alla fine, nessuna fine. Solo una domanda, la più tremenda: “Basta una porta subdolamente socchiusa a castigarmi per l’eternità?”. Condannati si nasce, sennò si diventa.

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