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Non dirmi che fare

La teoria dello Stato minimo secondo Robert Nozick, irregolare della filosofia politica americana

Alberto Mingardi

Se non possiamo avere una società in cui non ci siano persone che, per il ruolo che occupano, dicono agli altri che cosa fare, almeno possiamo evitare di farlo. Grandi idee su anarchia e utopia

I grandi libri si scrivono per caso. L’autore è a Stanford, al Center for Advanced Study in Behavioral Science, e vorrebbe dedicarsi a un libro sul libero arbitrio. Dopo alcuni mesi in cui non era “venuto a capo di nulla sul libero arbitrio”, si trova a parlare a un gruppo di studenti e presenta “alcune riflessioni su come si sarebbe potuto sviluppare uno Stato a partire dall’anarchia”. Il tema non sarebbe proprio nuovo nella storia del pensiero, ma qualche anno prima ha frequentato un gruppo di anarchici individualisti di New York, “libertari”, i quali ritengono che si possa immaginare una società nella quale anche quel servizio particolarissimo che è la sicurezza sia fornito in regime di concorrenza e non di monopolio. Il nostro autore, “uno lontano una sola generazione dallo shtetl, un pisher (yiddish per pischello o piccione) di Brownsville e di East Flatbush, Brooklyn”, è pure uno dei più giovani professori di filosofia mai diventato ordinario (a trent’anni) a Harvard. Prima di frequentare quegli stravaganti economisti newyorkesi, diceva di essere “socialista”. Quelle cose però lo interessano e si immerge nella “tradizione anarchica individualista”, alla quale resterà affezionato. Quando è a Stanford, riceve “per posta il libro di John Rawls, che avevo letto da molto tempo e che avevo letto in manoscritto e discusso approfonditamente con l’autore”. Trovandosi per le mani Una teoria della giustizia (1971), si sente spinto a mettere nero su bianco una prospettiva alternativa, la “teoria del titolo valido”, assieme alle riflessioni critiche sul suo dirimpettaio accademico (Rawls, più anziano di quasi vent’anni, insegna a Harvard). Per teoria del titolo valido, intende che l’unico modo per verificare se una distribuzione di risorse è “giusta” è accertarsi che sia l’esito di atti legittimi, non paragonarla a un qualche schema ideale.  

Una distribuzione è giusta se è l’esito di scambi volontari, non viziati da furto o frode. A un incontro della American Philosophical Association intanto aveva presentato un paper sull’utopia. “I tre saggi stavano bene insieme e mi sembrò che con qualche integrazione e aggiunta avrebbero potuto costituire un libro”. Così Robert Nozick raccontava la nascita di Anarchia, Stato e utopia, che pubblica alla scandalosa età di 36 anni – dalle fotografie è più simile “a un giovane cowboy che a un professore di Harvard” (così Sergio Ricossa nell’introduzione alla prima edizione italiana) – e che quest’anno festeggia mezzo secolo. La struttura triadica del saggio ne svela l’eccentricità. La sua fortuna stupisce pure il cowboy. Che se ne fosse accorto o meno, Nozick aveva scritto un libro per il quale l’abusato aggettivo di “necessario” non è eccessivo. La filosofia politica era stata data per morta, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e il protagonista della sua resurrezione era stato Rawls. A partire dagli anni Cinquanta, questi aveva aperto il cantiere di una poderosa giustificazione delle liberaldemocrazie a economia mista: da una parte, cercando di fondare su basi più solide il pluralismo delle idee e delle opinioni e, dall’altra, argomentando a favore di un contesto nel quale un certo grado di redistribuzione e un po’ di economia di mercato (con le sue diseguaglianze, accettabili nel momento in cui beneficiano anche i più deboli) convivevano. Rawls riesumava la tradizione del contratto sociale e, per prevenire obiezioni, inventava un duplice artificio intellettuale. Immaginando che quel contratto fosse l’equivalente di una negoziazione fra feti in “posizione originaria” e sotto “velo d’ignoranza” (cioè nessuno sapeva da che pancia sarebbe uscito), il più importante filosofo politico del secondo Novecento presentava la sua società giusta come una faccenda di regole basilari, i pilastri stessi di una comunità umana, evitando di occuparsi di decisioni politiche di dettaglio. Dalle regole buone, verrà la società buona.


Come rispondere? Negli anni Settanta, non c’è forza politica che metta in discussione seriamente l’idea che la sfera pubblica debba espandersi e non contrarsi. Un po’ come oggi. A differenza di oggi, non tutti gli intellettuali applaudono. Un manipolo di studiosi ragiona criticamente sulle implicazioni di medio termine della strada su cui l’occidente si è messo. Ma, per quanto scendano volentieri sul terreno della teoria politica, sono tutti o quasi economisti. Nozick ha studiato a Princeton, si è addottorato con Carl Gustav Hempel, sa toccare tutti i tasti della filosofia analitica. Fosse anche solo per questo, non lo si può ignorare. Nozick non piace, non piace a tanti, ma bisogna farci i conti, come ammette un suo antagonista naturale quale Peter Singer. Le tre sezioni del libro (anarchia - Stato - utopia) stanno assieme meglio di quanto sembri. Dire che gli anni Sessanta e Settanta siano attraversati da spinte anarchiche, negli Stati Uniti e in occidente, sarebbe eccessivo. Ma i diritti civili, il Sessantotto, le manifestazioni contro la guerra del Vietnam sono sintomi di uno sfarinarsi del concetto di autorità, in quest’ultimo caso l’autorità dello Stato, quella che può bombardare una città e accompagnarti alla sedia elettrica. Gli anarchici individualisti che Nozick incontra a New York sono ragazzi “di destra”, difendono il capitalismo e l’economia di mercato, ma vanno d’accordo con la “sinistra” sulla guerra, la libertà di parola, le droghe. L’associazione dei giovani repubblicani si spacca su questi temi ed è così che si crea un pubblico, per piccolo che sia, per le teorie di Murray N. Rothbard e David Friedman, figlio di Milton, i quali in modo diverso immaginano un mondo senza coercizione. Queste idee faticano a entrare nel dibattito filosofico: ce le porta Nozick, confutandole con una certa simpatia. Il nocciolo del suo argomento è che possa esistere una “spiegazione a mano invisibile” per la nascita dello Stato, cioè che, se mai ci trovassimo in una società nella quale le persone comprano protezione da agenzie in concorrenza, alla fine una di queste agenzie diventerebbe monopolista senza obbligare nessuno ad aderirvi. Allo Stato si arriva comunque. La reazione di Rothbard è: se anche fosse vero, almeno il mondo si sarebbe preso una vacanza (dalla coercizione). Lo Stato di Nozick è però rigorosamente limitato. L’incipit di Anarchia, Stato e utopia è una staffilata: “Gli individui hanno diritti: ci sono cose che nessuno, persona o gruppo, può fare loro (senza violarne i diritti)”. I diritti sono “vincoli collaterali”: definiscono le cose che non si possono fare, stabiliscono quali sono le porte che lo Stato non può aprire. Il presidente Milei, con tutta probabilità, considererebbe Nozick uno statalista, ma uno statalista moderato.


Smontata e rimontata la giustificazione del monopolio della violenza, come fosse un filosofo della prima età moderna, Nozick si dedica al suo collega Rawls. La parte centrale del libro è il suo capolavoro. Per Rawls, la redistribuzione è compatibile con la libertà e il pluralismo, al punto che si può stabilire la priorità dei secondi sulla prima senza scalfirla in alcun modo. Questo però presume che, una volta fatte le regole del gioco, non vi si debba più intervenire. Nozick piazza le sue cariche alle fondamenta dell’edificio rawlsiano, dimostrando con un nitore argomentativo difficilmente imitabile che “la libertà sconvolge i modelli”. Qualsiasi distribuzione della ricchezza ispirata a un modello (sia quello di Rawls, sia un egualitarismo più stringente, sia una qualche versione della meritocrazia, sia il principio per cui solo i rossi di capelli debbono possedere i mezzi di produzione) non sopravvive, se a un certo punto le persone sono messe in condizione di decidere cosa fare di ciò che è loro. Immaginiamo di vivere in una società dove la distribuzione delle risorse è coerente col modello scelto. Le dotazioni individuali sono fette di una torta, tagliate da qualcuno. Le persone però sono libere di andare a vedere una partita di basket, nella quale gioca anche Wilt Chamberlain, cestista celeberrimo allora e tutt’oggi detentore del record per maggiori punti fatti in una singola partita e in stagione dell’Nba. Mettiamo che Chamberlain esiga, per giocare, che il prezzo del biglietto sia maggiorato di 25 centesimi, versati in una cassetta con scritto sopra il suo nome. “Supponiamo che in una stagione assistano alle sue partite in casa un milione di persone, e Wilt Chamberlain concluda con 250 mila dollari, una somma di gran lunga maggiore del reddito medio e maggiore perfino di quanto abbia chiunque altro”. La distribuzione iniziale, “giusta” perché coerente col modello, non sopravvive a questa scelta banale. È cambiata semplicemente perché le persone, volontariamente, hanno deciso di andare a vedere Chamberlain, non perché qualcuno li obbligasse, ma perché desideravano farlo. Quale che sia il modello di distribuzione delle risorse che noi abbiamo in mente, nel momento in cui gli individui che ne dispongono possono impiegarle come meglio ritengono quella distribuzione non si conserverà immutata. Vale per i loro consumi, vale per le loro attività: il mondo è pieno di gente che fa gli straordinari, e verosimilmente ce ne sarebbero anche in una società egualitaria, dove ciascuno fosse equipaggiato con una dotazione in grado di soddisfare le sue esigenze di base.


Caro Rawls, bisogna scegliere. O ci interessano regole del gioco stabili nel tempo, le stesse che tu vorresti fossero adottate unanimemente nella tua immaginaria negoziazione tra feti. Oppure ci interessa livellare le diseguaglianze. Quest’ultimo è un lavoro continuo, per il quale il decisore politico deve tenersi le mani libere. Se il liberalismo postbellico è tutto un tentativo di riscoprire il diritto per evitare che quanto è avvenuto nella prima metà del Novecento si ripeta, Nozick ci mette l’ultimo tassello, forse il più importante. Diritto e redistribuzione insieme non possono stare. Della terza parte del libro non si parla mai, perché le polemiche girano tutte attorno alla seconda. In essa, si presenta lo Stato minimo, cioè uno Stato che non fa tutta una serie di cose che oggi gli Stati fanno (non solo il reddito di cittadinanza ma pure, per dire, l’istruzione), come la migliore “impalcatura per utopie”. In un libro di quindici anni dopo, Nozick dirà di non aver considerato, nel primo e più noto dei suoi lavori, l’importanza dell’identità, che in qualche misura giustifica il finanziamento coercitivo di tutta una serie di servizi. Una “impalcatura per utopie” presuppone la società libera come un arcipelago di comunità e associazioni in cui le persone cercano senso e significato, che la politica non può e non deve offrire. Forse il passo indietro più radicale che essa deve fare è proprio questo: lasciare a ciascuno di decidere come e con chi immaginare il suo progetto di vita, senza imporre una identità preconfezionata, tipicamente quella “nazionale”, che per qualche motivo dovrebbe prevalere su tutte le altre. Ma chi l’ha detto che è più importante essere “italiano” che non mancino, bevitore di whisky, tifoso del Milan e devoto fan di Taylor Swift?


Se Rawls il suo cantiere non l’ha mai chiuso, e ha passato il resto della vita a dare un’altra mano di bianco alle pareti, Nozick poi si è occupato d’altro. Non ha risposto ai critici, ogni tanto ha criticato se stesso, ha chiarito in un’intervista prima di morire che la notizia di una sua abiura delle tesi fondamentali del saggio del ‘74 era largamente esagerata. Si è portato appresso, e ha usato creativamente anche nei libri successivi, l’economia che aveva studiato per Anarchia, Stato e utopia: l’approccio hayekiano alla concorrenza come processo di scoperta del nuovo, la teoria dell’imprenditore di Israel M. Kirzner. Dopo Anarchia, Stato e utopia, scrive Spiegazioni filosofiche, un trattato rapsodico in cui rifiuta ogni “filosofia coercitiva”. “Perché i filosofi ci tengono tanto a costringere gli altri a credere in qualche cosa? È bello comportarsi così verso una persona? Non si può rendere migliore una persona costringendola, che lo voglia o no, a credere in qualcosa contro la propria volontà”. Come suggerirà in una intervista a Giovanna Borradori, la sua filosofia non-coercitiva, l’idea di esporre il lettore a una serie di argomenti sperando che possano stimolare altri pensieri, scegliere di fare assieme una camminata filosofica per il puro piacere di camminare, può essere una “conseguenza” del suo primo saggio, di quella filosofia politica che voleva essere la meno coercitiva possibile. Forse Nozick non ha mai risposto ai suoi vecchi interlocutori anarchici, per cui persino lo Stato minimo è inaccettabile, perché continuavano a essergli simpatici. Non c’è poi molto che possiamo fare per ridurre la coercizione a questo mondo. Se non possiamo avere una società in cui non ci siano persone che, per il ruolo che occupano, dicono agli altri che cosa fare, almeno possiamo evitare di farlo, noi per primi, nei nostri libri. Imparare a non dire al nostro prossimo come comportarsi è il più difficile degli esercizi libertari.