Di Monozigote - Opera propria, CC BY-SA 4.0 

il libro

La terribile profezia di un'umanità senza futuro nel Gelo di Thomas Bernhard

Sandra Petrignani

Torna in libreria il primo romanzo dell'autore austriaco, la storia del pittore Strauch che si ritira a vivere nel paese più malinconico che esista. La riedizione Adelphi

Diceva Ingeborg Bachmann che i libri di Thomas Bernhard sono “necessari, indispensabili, inevitabili”. E a rileggere Gelo, che torna adesso da Adelphi nella ormai classica traduzione di Magda Olivetti (rivista da Marina Pugliano), bisogna darle ragione. Bernhard, nel suo essere estraneo a tutto fuorché alle proprie fissazioni, odi, isterie, riesce a centrare il bersaglio dell’interpretazione dell’umano come pochi, e a diventare necessario e indispensabile anche per leggere la contemporaneità. Gelo è il primo romanzo dell’autore austriaco, pubblicato nel 1963, quando lui – nato il 9 febbraio 1931 – era poco più che trentenne.  In Italia arrivò solo nella seconda metà degli ’80 grazie all’Einaudi, ma era ormai da tempo introvabile e così risorge con la forza di una sorpresa. La sorpresa di un giovane Bernhard che è già in pieno il Bernhard che conosciamo, forse solo meno ironico, e che ha già convinzioni coriacee inscalfibili: “Tutto al mondo non è altro che un’idea di se stessi”, “La vita è una causa che si perde sempre”, “Nulla merita uno sforzo”. 

E’ la storia del pittore Strauch che, bruciati i propri quadri, s’è ritirato nel remoto villaggio di Weng “il paese più malinconico che io abbia mai visto”, fra nevi perenni ed enormi blocchi di ghiaccio. E’ un mondo finale quello che lo circonda e che descrive nei suoi aspetti orrendi e nascosti a un giovane medico che avrebbe, a insaputa del pittore, il compito di controllarlo, compito impostogli da un preoccupato fratello suo superiore in ospedale. Ma il giovane resta tenebrosamente affascinato dal “paziente” e finirà con l’entrare nella trappola logorroica dell’altro per contemplare insieme a lui la miseria del passaggio umano sulla terra. Anche Wang, come oggi tante parti del nostro mondo in fiamme, è stato teatro di guerra: “Brandelli di bambini, sa, sugli alberi” racconta Strauch. “Capitava di trovare uomini nel fiore dell’età schiacciati dalle ruote dei cannoni, nel sentiero infossato nel bosco giaceva un gruppo di granatieri con le lingue tagliate e il pene in bocca. E qua e là sugli alberi spenzolavano uniformi crivellate, mani e piedi irrigiditi sporgevano dalla superficie dello stagno”.

E poi il male che, nel combattersi, gli uomini fanno agli animali, senza alcuna pietà per la loro sofferenza. E alberi secolari abbattuti per vile guadagno e distruzione, distruzione, distruzione, e sempre e solo incomprensione e vendetta. Non che delle donne lo scrittore, e Strauch in sua vece, abbia un giudizio migliore. Sono piccole creature che imbrogliano e tramano e tradiscono nel chiuso delle case, dedite ad amori mercenari, perché nemmeno l’eros ha in questo universo degradato una qualche forma di riscatto. Che futuro resta allora a esseri così ignari di vere carezze e vero bene? “La morte, questo penoso rimedio di ogni disperazione, la morte, questa portatrice di bacilli dell’immensa eternità, la morte della Storia…”. Cito dalle pagine centrali del romanzo, le più belle forse, scandite dal ripetuto, profetico invito: “ascolti… ascolti… come si è disgregata ogni cosa, come si è dissolta, come si sono dissolti tutti i punti di appoggio… ascolti… come la fede e la mancanza di fede non esistono più… Ascolti, tutto non è altro che aria, aria congelata”. E tutto questo gelo in cui anche la vita di Strauch finirà, è un’altra impressionante visione della fine del mondo. Capovolta rispetto alla paura di oggi per un pianeta minacciato dall’eccesso inverso: il caldo. Ma è comunque la terribile profezia di un’umanità senza futuro, perché mai ha imparato a conservare la bellezza aurorale della natura avuta in sorte.

Di più su questi argomenti: