Damiano Michieletto Michele Gamba Paolo Fantin e Carla Teti alla conferenza stampa sulla nuova produzione dell'opera Medée al Teatro alla Scala

Canto e spettacolo splendidi

La Magica "Médée" alla Scala, la prima volta dopo Callas: più vera di allora

Alberto Mattioli

A Milano l'opera di Luigi Cherubini stupisce. Il regista, Damiano Michieletto crea un dramma familiare trasformato in tragedia cosmica. Ma a farne un successo sono stati Michele Gamba e Marina Rebeka 

Mancava dal 3 giugno 1962, ultima recita in loco di Maria Callas. Però quello di Médée di (1797), domenica alla Scala, in realtà non è stato un ritorno ma un approdo. Perché la Callas faceva, ovviamente da CALLAS, una Medea che con quella di Cherubini aveva solo delle vaghe somiglianze: tradotta in italiano (male) e con i recitativi non parlati come nell’opéra-comique originale ma cantati, orchestrati da Franz Lachner nel 1855 su una traduzione tedesca. Oggi è di buon gusto trovare di cattivo gusto il lavoro di Lachner, che è semplicemente un onesto frutto del suo tempo. Poiché però non siamo più nel 1855, anche se a giudicare dal suo pubblico parrebbe di sì, alla Scala per la prima volta Médée è stata rappresentata in francese e senza tagli. Resta il grande problema dei parlati. Quelli dell’opéra-comique erano degli attori che cantavano (male, pare) più che dei cantanti che recitavano; oggi quello stile è estinto, specie dopo la sciagurata fusione delle troupe dell’Opéra-comique e dell’Opéra nel 1939, e sopravvive soltanto in qualche remota incisione. In ogni caso, l’ipotesi che, fra un numero musicale e l’altro, dei cantanti lirici per di più non madrelingua possano declamare gli alessandrini di François-Benoît Hoffmann è semplicemente impraticabile.

Il regista Damiano Michieletto li ha quindi rimpiazzati con dei dialoghi registrati, che danno voce a chi voce non ha mai avuto, da Euripide in poi: i figli di Medea e Giasone. Sono brevi inserti, molto ben scritti dal drammaturgo Mattia Palma, una soluzione semplice ma efficace al rebus dei parlati. Lo spettacolo, tuttavia, non finisce qui, e non è certo uno di quegli arredamenti d’interni che alla Scala credono essere le regie d’opera. Siamo in un salotto minimalchic dove una porta misteriosa calamita subito gli sguardi: è quella della cameretta dei bambini, come al solito al centro dei ricatti incrociati della coppia scoppiata Médée-Jason. Da lì è un crescendo emotivo irresistibile, che trasforma il dramma familiare in tragedia cosmica. Lo scenografo, l’orso ottimo massimo Paolo Fantin, fa “crepare” il muro sul quale i pupi hanno scritto il loro amore per maman, e sommerge la scena con cascate di carbone; i costumi contemporanei di Carla Teti “raccontano” i personaggi, a cominciare da un Jason giustamente truzzissimo; le luci di Alessandro Carletti sono una meraviglia. E Michieletto, che sa far recitare anche i sassi, riesce a scongelare Marina Rebeka, mai così intensa, un’Anna Magnani devastata e scarmigliata che abbraccia il suo Jason in posa fetale come ultimo momento di impossibile felicità. L’uccisione dei pargoli avviene sì fuori scena, come da libretto, ma ripresa da una telecamera interna. Sconvolgente. E allora davvero, come voleva Aristotele, il terrore e la pietà della tragedia ci purificano e, come vogliamo noi, ci obbligano a pensare.

Certo, questo risultato non sarebbe possibile senza la splendida direzione di Michele Gamba. Si trattava di “sgrassare” Médée dalle sue improprie superfetazioni romantiche o peggio veriste, ma senza rinunciare alla violenza espressiva di questa musica terribile. Gamba trova un suono limpido, leggero, quasi trasparente, a tratti perfino scintillante, però sempre innervato da una tensione continua, inesorabile come la maga. E fa capire come il mondo di Cherubini sia certo il Gluck francese, ma soprattutto il ghiaccio infuocato del Mozart sublime di Idomeneo. L’Orchestra, evidentemente, lo ama, e gli obbligati del flauto nell’aria di Dircé e del fagotto in quella di Néris valgono da soli la serata. Per il Coro di Malazzi ormai si sono esauriti i superlativi. Quanto alla Rebeka, è sempre stata una grande cantante e non sempre una grande interprete. Questa Medea è la sua consacrazione. Recita benissimo e benissimo canta, anche perché ha il coraggio, quando serve, di “sporcare” la sua bella e algida voce: forte e fragile insieme, è matura per la Norma prossima ventura. Nell’insieme modesto, ma non tanto da rovinare la serata, il resto della compagnia. Occhio, chi perde questa Médée sarà perseguitato per l’eternità da Tisiphone, “implacable déesse”.