(foto Ansa)

facce dispari

Le “Midnight in Porta Portese” di Manuela Kustermann

Francesco Palmieri

Dall'inconto con Carmelo Bene al sodalizio, artistico e personale, con Giancarlo Nanni. "Adesso il teatro è tutto uguale". Chiacchierata con l'attrice e regista romana

Se amasse di più l’enfasi, Manuela Kustermann potrebbe raccontare se stessa sulle ottave più alte, preferisce però i registri bassi di chi ha passato l’esame di storia e non lo deve dire. Quella del teatro italiano l’ha certificata quale protagonista dell’avanguardia di scuola romana, di cui assieme a Giancarlo Nanni fu l’anima fondante. Girata (ma chiusa mai) la pagina, la sperimentazione proseguì e prosegue dal 1989 a oggi con il teatro Il Vascello dove dal 2010, scomparso Nanni, Kustermann è direttore artistico anche se le piace tornare in palcoscenico, di tanto in tanto, nel ruolo naturale di attrice. Lo farà a febbraio interpretando Kiki di Montparnasse, personaggio centrale della Parigi anni Venti in cui tra molte differenze pure si ritrova come icona delle avanguardie.

Il suo primo personaggio in assoluto fu Ofelia nell’Amleto di Carmelo Bene.

Nel 1963.

Attrice per caso?

Per convinzione. Volevo diventare ballerina ma Jia Ruskaia, la “dea danzante”, disse che non avrei potuto assurgere a étoile per la conformazione del bacino. Però l’enorme suggestione che provavo all’apertura di un sipario, quando mamma mi portava all’Opera, mi aveva stregato. Decisi che avrei recitato.

Come la scovò Carmelo Bene?

Cercava una Ofelia e mi diedero l’indirizzo dove presentarmi al provino, una casa in piazza Sforza Cesarini. Mi aprì Maria Michi, già famosa attrice di Rossellini, e mi ritrovai in un posto folle. Lei era brilla, Carmelo girava nel salotto in mutande. Chiese a un attore di portarmi in una stanza per provare la pazzia di Ofelia. Non ci capii più niente e rifiutai, ma lui disse: “Va bene lo stesso, torna dopodomani che partiamo”. I miei la presero malissimo e persi anche il fidanzato. Quando mi accompagnò all’appuntamento, vide questa sorta di circo maledetto guidato da Carmelo con le unghie laccate che sbevazzava da un fiasco e intimò: “Se vai con loro non mi vedrai più”. Gli dissi ciao. Poi portammo lo spettacolo al Festival dei Due Mondi di Spoleto, alternandolo con il primo ‘Pinocchio’ di Carmelo.

Fu un successo?

Figuriamoci. Ogni mattina mi mandavano all’ufficio del turismo per cercare di vendere qualche biglietto perché non veniva nessuno. Quattro o cinque persone a sera. Una tristezza. Poi una tempesta scoperchiò quella sorta di tendone che ci ospitava e così terminarono le repliche.

Cosa ricorda di Carmelo Bene?

Esigente, poteva stare un’ora sulla prova di una singola battuta. E un po’ sadico: al ristorante ci dovevamo accontentare dei piatti poveri, mentre per il cane lupo che si portava appresso ordinava la bistecca. Vidi i primi soldi con il Faust al Teatro de’ Satiri, ma ogni tanto mi multava perché arrivavo in ritardo, solo che non era vero. Però aveva un carisma unico: trasmetteva elettricità a chi stava vicino. Mi ha insegnato il rispetto assoluto per l’arte e tutti i mestieri della filiera. Non mi ha spaventato più nulla. L’unica cosa che non saprei fare è l’elettricista.

Poi conobbe Giancarlo Nanni.

Veniva a vedermi a teatro e un giorno mi propose un happening a casa di Cathy Berberian.

La “voce” dell’avanguardia, moglie di Luciano Berio.

Giancarlo voleva che mi esibissi a seni scoperti. Gli diedi uno schiaffo, ma continuò ad aspettarmi ogni sera su una Triumph rossa. Finalmente feci quella performance, c’erano anche Bussotti e Nono. Non scoprii i seni, ma andai a vivere con Giancarlo in una casa di Trastevere.

Il sodalizio fu totale: artistico e personale.

Nel ’67 aprimmo il teatro a Porta Portese. Ci passava tutta la Roma intellettuale e non solo, ci passò il mondo, tra i primi John Cage. Non era come oggi, le arti s’intrecciavano, pittori e musicisti frequentavano i teatri. Ci chiamarono anche negli Stati Uniti per un giro nelle università.

Il teatro rendeva?

È sempre stata dura, ma c’erano meno regole. Avemmo anche aiuti insperati: il benefattore era un marchese che ci metteva in cassa diecimila lire e poi portava tutti a cena. Per avere un’idea, un biglietto costava 300 lire.

Un paio di ricordi?

L’arrivo di Memè Perlini presentato da Bussotti. Disse: “Lui è bravo a disegnare, potrà esservi utile”. O le performance molto interessanti con Aldo Braibanti.

L’intellettuale che finì in galera come Oscar Wilde

E poi il pubblico dei pittori, perché Nanni aveva cominciato dipingendo e conosceva Schifano, Angeli, Pascali, Festa. Fummo l’avanguardia teatrale della scuola romana, una definizione coniata da Giuseppe Bertolucci.

Perché chiamaste il teatro La Fede?

Fu un’idea di Nanni. Ora che ci penso non glielo chiesi mai. È curioso che non glielo abbia chiesto, ma sono cose che succedono.

Quando vi sfrattarono da Porta Portese acquisiste il cinema di Monteverde, l’attuale Teatro Vascello. Si diverte ancora come allora?

Sono molto appagata. Alla scomparsa di Nanni fu difficile, dovetti portare avanti da sola la compagnia, ho fatto anche la regista. La felicità che mi diedero gli spettacoli con Giancarlo resta ineguagliabile.

La diverte ancora recitare?

Divertimento non è la parola giusta. È più corretto dire che è un piacere.

Qual è la differenza tra la sua generazione e le seguenti?

Non c’è più quella felice prospettiva di cambiare il mondo, o perlomeno l’esigenza esplosiva di creatività, che malgrado la codificazione di Bertolucci era forse più mossa dall’istinto. Adesso è tutto piuttosto uguale: ottimi compitini, ma è difficile che ti facciano saltare sulla sedia. Ci riescono alcuni: Antonio Rezza, Leonardo Manzan. Noi però sperimentiamo sempre e siamo aperti alla ricerca, sebbene il mercato sia più chiuso, soffocato dal giro dei teatri nazionali.