FACCE DISPARI

Luca Miniero: “Eduardo rivivrà nei vicoli di Forcella”

Francesco Palmieri

Il regista che ha trasposto la commedia di De Filippo "Napoli milionaria!", il 18 dicembre su Rai 1, la racconta e si racconta. "Vivo la nostalgia come un sentimento positivo. Scelgo di coltivarla". Napoli, il turismo, lo streaming e il cinema

Vico Scassacocchi: si chiama davvero così, probabilmente perché con la sua strettezza guastava carrozze e carretti che lo percorrevano per arrivare ai Tribunali. È qui che il regista Luca Miniero ha collocato la sua trasposizione della celeberrima commedia di Eduardo De Filippo, ‘Napoli milionaria!’, che sarà trasmessa il 18 dicembre su Rai 1 con Massimiliano Gallo e Vanessa Scalera nelle parti dei protagonisti. Forse l’ambientazione spingerà pure qualche rivolo della fiumana turistica a tracimare nel curioso vicolo e a scoprire il cuore di Forcella, consegnata dalla seconda metà del Novecento alla trista fama di enclave camorristica, quando vi regnavano il clan Giuliano e i suoi successori.

   

Chi si misura con Eduardo è stretto fra un duplice rischio di tradimento: replicarlo senza essere lui o rimodellarlo come se fosse lui. Come se l’è cavata?

‘Napoli milionaria!’ è forse la sua prima commedia politica, scritta a caldo nel ’45 per denunciare gli effetti morali della guerra. Ho rispettato l’intento senza discostarmi dalla commedia originale e dal film successivo di Eduardo, ma ho attualizzato la tematica dell’avidità e la difficoltà di gestire la vita di fronte all’ambizione sfrenata in cui è caduta la famiglia del reduce Gennaro Jovine. Non si può pensare di rifare Eduardo tale e quale ma neanche di stravolgerlo. Devo dire però che nei suoi testi, come in quelli di Pasolini, sono presenti le istruzioni per rileggerlo assecondando la contemporaneità.

 

Perché ha scelto Forcella?

Mi sembrava il quartiere più adatto a riprodurre gli anni Quaranta. Oggi è molto cambiato dopo l’èra della camorra: conserva la memoria ma guarda al futuro. Vi siamo stati accolti in modo straordinario.

 

Non teme che anche questa parte di città si possa trasformare nella grande friggitoria gentrificata a uso turistico?

Napoli è in preda all’ebbrezza di un turismo anche piuttosto sregolato, ma non ne posso più di sentire che si stava meglio prima. Me la ricordo negli anni Ottanta, con le guerre di camorra e un omicidio al giorno. Con tutti i difetti, le preferisco questa. La sfida è trovare una collocazione internazionale senza perdere l’identità, ma sono ottimista: anche se le costerà fatica, è una città che non si rassegna mai al livellamento.

 

Da molto tempo lei vive lontano da Napoli, ma quest’anno ci è tornato due volte per raccontarla. Parli della seconda.

Un viaggio nel tempo all’Arenella, il mio quartiere, per una memoria che mi riaffiorava spesso e con cui ho fatto i conti. Quarant’anni fa, ad aprile 1983, fummo sconvolti da una tragedia: l’autobus di una scuola media pieno di studenti in gita per il Garda si scontrò con un autoarticolato nella galleria del Melarancio sulla A/1. Morirono undici bambini che sedevano da un lato, quelli dell’altro si salvarono. Poco prima, a un autogrill, alcuni si erano anche scambiati di posto. Ho rintracciato i sopravvissuti, all’epoca quei tredicenni che definimmo “i fortunati”. È il mistero di chi si mette, senza saperlo, nella “parte giusta”.

  

Una sorta di ‘Ponte di San Luis Rey’. Gli imperscrutabili disegni del destino.

O della casualità: è il tema del documentario. L’ho intitolato ‘Dalla parte sbagliata’ ed è stato premiato al Festival dei Popoli a Firenze. Lo proietteremo il 19 dicembre al cinema Vittoria, la storica sala di quel quartiere dove vivevo io. E gli “undici fiori del Melarancio”.

  

Qual è stata la sorte dei “fortunati”?

Hanno sofferto difficoltà e senza una specifica assistenza psicologica, che allora non veniva contemplata. Qualcuno si vergognava di essere rimasto vivo e molti di loro attribuiscono all’incidente la scarsa capacità di programmazione di certe scelte posteriori.

 

Quasi diffidassero del destino.

O lo evocassero per scaricarsi delle responsabilità. Si può capire. Al pranzo di rimpatriata che ho organizzato nel documentario, la madre di uno dei morti ha detto loro: “Avete visto l’inferno con gli occhi e per questo ho avuto sempre una grande stima per voi”.

 

Questo viaggio nel passato, tra gli anni Quaranta di Eduardo e una tragedia di quarant’anni fa, le ha rinnovato la nostalgia di Napoli?

Il mio centro è altrove e ho affetti sparsi in varie città. Vivo la nostalgia come un sentimento positivo, che addirittura mi piace. Scelgo di coltivarla, proprio letterariamente.

   

 

Come si muove tra un genere e l’altro? Tra commedie e serie tv?

Ho maturato col tempo una intuizione poco italiana: il primato della regia come linguaggio rispetto al testo, che mi rende più facile spostarmi tra temi differenti o entrare nei copioni senza pregiudizi. Mi piace scrivere ma sono convinto che il movimento della macchina da presa, la recitazione degli attori, le scelte nel montaggio prevalgano sulla carta.

 

La serialità quanto insidia il cinema? Si ritrova nel colloquio tra Nanni Moretti e i dirigenti di Netflix, nel ‘Sol dell’avvenire’?

La sbornia iniziale dello streaming ha danneggiato il cinema, poi ci si sono messe le restrizioni per il Covid. Adesso abbiamo ripreso a frequentare le sale e si va verso un punto di equilibrio tra film e serialità. Credo che Netflix abbia migliorato anche la qualità della nostra tv nel tentativo di adeguarsi al livello dei prodotti esteri, e credo che il pubblico negli ultimi anni sia cresciuto grazie alle serie. Però rendiamoci conto che intanto, nel cinema, non siamo messi così male. Produciamo molti film, alcuni brutti e altri molto belli, ma su questa “via media” torneremo di nuovo importanti nello scenario internazionale.

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