Konstantin Yuon, Nuovo pianeta (1921) 

La scomparsa dell'idea di rivoluzione e popolo dagli orizzonti letterari

Alfonso Berardinelli

Un libro di Stefano Brugnolo su una lunga tradizione letteraria e teorico-politica sparita fin dagli anni Sessanta e Settanta. Ora ne rimangono solo fantasie apocalittiche

Di Stefano Brugnolo, docente di Teoria della letteratura all’Università di Pisa, è appena uscito un imponente libro che sarà bene leggere e studiare. Al momento l’ho solo sfogliato e assaggiato qua e là con crescente interesse. Il titolo è Rivoluzioni e popolo nell’immaginario letterario italiano ed europeo (Quodlibet, pp. 419, euro 26) e la materia è divisa in sei parti. Si va dal Cinque-Seicento (Machiavelli, Tasso, Milton) al Romanticismo (Goethe, Hugo, Delacroix, Whitman) ai rivoluzionari nevrotici (Werther, Ortis, Ivan Karamazov) e al popolo in Manzoni, Flaubert, Nievo, Tolstoj, Zola, Verga e Pellizza da Volpedo, per arrivare al Novecento (Malaparte, Gramsci, Babel, Meneghello, Lampedusa) e per concludere con gli anni Sessanta e Settanta (don Milani, Pasolini, Mario Tronti, Carlo Ginzburg).


Buona e inevitabile la scelta dei testi e degli autori, alla quale si potrebbero eventualmente aggiungere l’autobiografia Passato e pensieri di Aleksandr Herzen (sugli esuli e rivoluzionari europei fra 1848 e 1870), i reportage di John Reed sulle rivoluzioni in Messico e in Russia e Omaggio alla Catalogna di Orwell.
Nonostante il lungo passato preso in esame, a ispirare Brugnolo è stato un tema di particolare attualità e di sapore “epocale”: la scomparsa dall’orizzonte sia dell’idea di rivoluzione che dell’idea di popolo e di una classe subalterna caratterizzata da un forte senso di identità sociale e culturale e di solidarietà politica. Qui non posso che fermarmi a segnalare quanto dice Brugnolo nelle pagine introduttive e conclusive. Al di là di tutto ciò che riguarda i vantaggi offerti dalla critica letteraria di orientamento tematico praticata da Brugnolo, l’interesse del libro non è solo letterario, coinvolge tutta la nostra cultura: scienze sociali, pensiero politico, senso comune e immaginario collettivo. L’idea di rivoluzione, cioè di rifondazione radicale della vita sociale e individuale, è tipica della storia occidentale moderna e si potrebbe dire che questa storia, molto probabilmente, si è conclusa con gli ultimi decenni del secolo scorso. In questo senso è vero che l’uso del termine post-modernità è effettivamente giustificato. Oggi parlare di rivoluzione e di classi sociali rivoluzionarie è improprio, è qualcosa fra la citazione storica, l’allucinazione politica e la truffa culturalistica. E d’altra parte, se si esclude il messianismo giudaico-cristiano, nell’antichità e fino a tutto il Medioevo la nozione di trasformazione rivoluzionaria della società era assente: si parlava di tumulto, sommossa, sedizione, ribellione, ma la società nel suo insieme nell’antichità non era, come più tardi è diventato, un problema storico, quanto piuttosto un problema moralistico: la storia sociale e le forze che la muovono non erano state ancora teorizzate come leggi oggettive. Nel mondo moderno, a partire dagli effetti sociali e politici provocati dalla Riforma luterana (le rivolte evangeliche dei contadini tedeschi guidati da Thomas Munzer soffocate nel sangue dai signori feudali), le idee di popolo e di rivoluzione si precisano e crescono per arrivare allo storicismo dialettico-materialistico di Marx.


Leggendo introduzione e conclusioni del libro siamo proiettati da un passato secolare al presente. Difficile, anzi direi impossibile, non condividere quanto Brugnolo dice sulla sparizione, da diversi decenni, sia della “prospettiva del popolo che insorge”, sia di opere memorabili che abbiano rappresentato trasformazioni rivoluzionarie nate dal basso. L’immaginario letterario e teorico-politico ha abbandonato il tema fin dagli anni Sessanta e Settanta. Se “le immagini di rivoluzione concepite da scrittori e artisti hanno contato molto per la cultura occidentale”, siamo oggi arrivati a vivere in una situazione nella quale “il mondo può finire ma non può essere cambiato”, cioè le fantasie apocalittiche hanno preso il posto di quelle rivoluzionarie. Popolo, o proletariato, o classe operaia, non esistono più come mezzo secolo fa: siamo “in un’epoca di masse composte da particelle elementari tra esse irrelate”. La rivoluzione più immaginabile è “una rivoluzione contro il progresso, contro la modernità”, dato che ci resta soltanto “il desiderio di fermare una macchina che corre a sempre più grande velocità” e verso un futuro senza volto o del tutto simile a un presente estremizzato.


Leggerò l’intero libro, magari un capitolo al mese per fare i conti con la straordinaria varietà e densità della materia. Ma intanto ho cominciato dalla lettura dell’ultima parte, in cui si analizzano e si discutono la pedagogia radicalmente antiborghese di don Milani, il populismo passionale e regressivo di Pasolini e l’operaismo ontologico-mitologico, piuttosto heideggeriano, di Mario Tronti. Pagine di esemplare equilibrio e lucidità, che forse solo un critico letterario intellettualmente e politicamente libero poteva scrivere. 

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