facce dispari

Franco Cutolo: Napoli senza veli e la memoria di un figlio

Francesco Palmieri

Gli sciuscià e gli scugnizzi dell'inchiesta di Giuseppe Marrazzo quarant'anni dopo nell'opera del regista napoletano. "Il mondo è diventato più feroce. Quei bambini erano costretti dalle famiglie a procacciarsi il pane allora ambivano alla sopravvivenza, oggi all’opulenza e soprattutto alla sua ostentazione"

Quando Tg2 Dossier sigillava gli anni Settanta con una inchiesta di Giuseppe Marrazzo tra sciuscià e scugnizzi napoletani, una sberla di crudo realismo che è custodita nelle teche Rai, chi poteva immaginare i cambiamenti, e quali, che sarebbero avvenuti tra il ’79 e il 2023. Ha remato a ritroso nel fiume del tempo il regista Franco Cutolo, rintracciando quegli scugnizzi di allora per vedere come e chi fossero diventati oggi, più di quarant’anni dopo, con un faticoso montaggio biografico concluso solo pochi mesi fa e proiettato, prima di mandarlo in produzione, per uno spettatore speciale: il figlio Giovanbattista.

È accaduto però, e qui l’avverbio “purtroppo” risulta tenue, che tra quella proiezione e l’anteprima pubblica del docufilm di Cutolo, ‘Napoli s-velata’, quel primo spettatore musicista talentuoso, cornista giovanissimo già di importanti orchestre sinfoniche, sia stato assassinato a colpi di pistola da un balordo adolescente nell’ultima notte d’agosto. Non occorre l’acume del cronista né un’inopportuna pudica riluttanza per rilevare, oppure ignorare, la collisione tra l’indagine di Franco Cutolo sui destini minorili difficili e la loro feroce incarnazione nella tragica vicenda di Giovanbattista (che ha smosso – come in precedenza mai – qualsiasi cuore della città).

L’altro giorno il Conservatorio di San Pietro a Majella ha intitolato un’aula a Giovanbattista. Sono moltissimi gli omaggi che ha ricevuto suo figlio.

Ci tengo che ne scriva, perché quand’ero giovane andavo al Conservatorio per visionare le partiture originali di Leonardo Vinci e Giovanni Battista Pergolesi. San Pietro a Majella, dove studiava mio figlio, per me era ed è un tempio, un luogo per cui passo con riverenza. Quest’omaggio, tragicamente, mi gratifica.

Gli scugnizzi intervistati da Marrazzo, in una inchiesta che destò scalpore, confessavano i furti di destrezza, accompagnavano i marinai americani nei night e nei bordelli. Bambini senza infanzia ma senza violenza. I loro eredi invece sono i ‘paranzini’, fanno le ‘stese’ con le pistole. Non chiedo al padre, ma al regista di ‘Napoli s-velata’. Come è stato possibile?

Il mondo è diventato più feroce. Quei bambini erano costretti dalle famiglie a procacciarsi il pane per strada e avevano timore dei propri genitori, fumavano ancora di nascosto, non conoscevano il degrado culturale esploso prima con la tv commerciale, poi con i social. Oggi invece i modelli sono Tony Colombo e la moglie. Allora ambivano alla sopravvivenza, oggi all’opulenza e soprattutto alla sua ostentazione.

Rintracciati dopo molti anni, e intervistati nel suo documentario, sui volti di quei bambini si manifestano i segni di una vita difficile. Il ritratto di Dorian Gray diventa quasi eufemismo.

La vita, spesso la droga, ha bruciato parecchie esistenze. È stato difficile sia rintracciare sia far parlare gli ex scugnizzi di Marrazzo. Opponevano un filtro di pudore, direi persino di dignità, finché sono riuscito a scostare questo velo.

Fa effetto, per esempio, identificare nella signora cinquantenne la bambina venditrice ambulante cui non piaceva giocare con le bambole.

Ha avuto un primo matrimonio infelice, è diventata mamma giovanissima e oggi vive con un nuovo compagno un’esistenza serena. È toccante sentire che mentì a Marrazzo: le bambole le sarebbero piaciute, solo che non poteva giocarci. Non poteva essere bambina.

In un altro episodio del documentario, lei fa la satira dell’alta borghesia napoletana, di una famiglia che si autoprodusse, nel 2002, un cortometraggio anche premiato sul pittore Caravaggio.

In quel ‘Vernissage 1607’ molti attori erano dilettanti che impersonavano se stessi alla presentazione delle Sette Opere di Misericordia, il quadro forse più bello del pittore più antiborghese che sia esistito. Ho voluto “svelare” certa classe napoletana che autocelebrava il suo potere. Compariva non a caso, tra gli attori, anche Renato Nicolini, che fu assessore alla Cultura prima a Roma poi a Napoli.

Questa ‘Napoli s-velata’ è un evidente richiamo alla rovescia della ‘Napoli velata’ di Ferzan Özpetek.

Perché ho voluto contrapporla con la crudezza del documentario alla narrazione della lobby di sinistra radical chic, che invece mette un velo sulla verità. È il mondo che detesto, la borghesia che ostenta un’aura illuminata, sfila per la Palestina e per le minoranze ma gratta gratta è più conservatrice della destra, e perciò la destra dal governo non la toglieremo più, o almeno non con questa sinistra divisa e senza identità. I Pasolini, e anche i Marrazzo, non esistono più.

Perché un regista teatrale, con una cultura barocca, ha scelto il cinema per raccontare questa Napoli?

Per realizzare un’opera senza finzione scenica. Per fotografare le cose come erano e sono con attenzione da cronista puro. Nessuna reinvenzione, nessuno stereotipo già utilizzato. Anche quando racconto il mondo dei ‘femminielli’ ne documento la trasformazione, dall’esclusione sociale di allora al riconoscimento, o allo pseudodivismo, conseguito all’epoca di TikTok.

Tornerà al teatro?

A fine mese, con uno spettacolo tratto dai testi di un artista e amico scomparso da poco e che merita di essere ricordato di più: Federico Salvatore. Riascoltiamo la sua canzone ‘Se io fossi San Gennaro’: è un pezzo emblematico della storia di Napoli. Raccontava la verità, e se non la racconti è peggio. Succede quel che è successo.

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