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l'intervista

Dai diritti all'umanitarismo: chi decide quali migranti hanno più bisogno? 

 Giulio Silvano

Lo scrittore Matthieu Aikins ci racconta il suo viaggio in fuga dall’Afghanistan, il ritiro voluto da Biden, chi sono i trafficanti e perché l’idea del “più amabile” cambia rapidamente

Matthieu Aikins, canadese-americano, ha passato sette anni vivendo a Kabul come corrispondente. Con alcuni reportage sulle vittime civili dei bombardamenti ha vinto il Pulitzer e con una sua video-indagine un Emmy Award. Da freelance ha collaborato soprattutto con il New York Times e con il New Yorker. La somiglianza fisica a un afghano, proveniente in parte dall’origine giapponese della madre, gli ha dato la possibilità nel 2016 di viaggiare come se fosse un migrante, insieme all’amico Omar, afghano che sogna l’Europa. Ha bruciato il passaporto, si è creato una nuova identità e ha attraversato il medioriente, arrivando in Grecia su un gommone e passando poi del tempo nel campo profughi di Moria sull’isola di Lesbo e poi nell’albergo occupato di Atene, il City Plaza. Questa storia la racconta nel suo primo libro, il reportage narrativo Chi è nudo non teme l’acqua appena uscito in Italia per Iperborea (traduzione di Luca Fusari), che “è anche una storia d’amore”, dice Aikins al Foglio: “Non solo quella di Omar. Una coppia impossibile formata da una sciita un sunnita. Riguarda anche l’amore della madre di Omar per i suoi figli, e l’amore per la poesia sufi, che vede la vita stessa come un atto di esilio”. 

In qualsiasi momento Aikins, che cambia il nome in Habib, per uscire da momenti delicati avrebbe potuto dire: sono un americano. “Ci sono state delle situazioni in cui dire ‘sono americano’ sarebbe stato più pericoloso, come nelle safe house dei trafficanti, perché mi avrebbero rapito chiedendo poi un riscatto”, racconta Aikins. “In generale avevo però sempre una sorta di privilegio che un vero rifugiato non ha. Una delle domande che mi faccio nel libro riguarda la solidarietà, la possibilità che esista tra confini, tra gerarchie socioeconomiche e politiche. Credo che dobbiamo stare attenti a un falso sentimentalismo che dice ‘siamo tutti uguali’. Dobbiamo essere consci che ci sono dei confini anche dentro di noi. Anche se ero lì con i migranti, mi sono reso conto che non potevo davvero essere come loro, essere davvero con loro, è doloroso riconoscerlo”. Per un anno ha avuto con sé solo un telefono dove appuntare le cose che succedevano, e poi sigarette e pasti frugali. “Ho dovuto abbandonare la mia identità, la mia vita, e immergermi in questa esistenza da rifugiato. E non potevo restare in contatto con le persone care. Nel farlo si ha un’idea di cosa vuol dire lasciare tutto indietro e ricominciare da zero. Come un migrante italiano che nell’Ottocento partiva su una nave a vapore per l’America. C’è una terrorizzante libertà. Ma nel futuro non penso che sarà più davvero possibile per via dell’aumento delle tecnologie biometriche di riconoscimento, che quando sono partito stavano iniziando ad apparire”. 


Il momento forse più spaventoso è quello della traversata tra Turchia e Grecia. “Sarei stupido se dicessi che non ho avuto paura”, dice Aikins: “Quaranta persone su un gommoncino, di notte, non è la cosa più sicura del mondo. Ma lavorando al fronte, in Siria, in Afghanistan, in Iraq sono stato in situazioni molto più pericolose, dove si rischia di finire sotto una bomba. E lo dico perché i migranti si prendono il rischio della traversata per scappare da una situazione che è ancora peggiore di quella del viaggio. Sono abituati al pericolo”. I problemi sono sempre legati alla burocrazia, alle politiche anti immigrazione. Omar, in quanto collaboratore della Nato, in quanto traduttore, avrebbe avuto diritto a un visto. “Aveva un diritto e l’ha perso. L’ha perso perché il sistema è stato sovraccaricato dal numero di richieste, e poi perché i requisiti amministrativi erano troppo complessi. Le persone al fronte non avevano tempo di raccogliere documenti, di ottenere una lettera dal comandante militare con cui lavoravano”. E quindi si è costretti a trovare dei trafficanti, dei criminali che organizzano le fughe, creano documenti d’identità falsi, e che spesso a livello monetario per i migranti equivalgono ad anni di lavoro. “Bisogna osservare i risultati del sistema che costruiamo. I trafficanti non sono la causa, sono solo l’effetto del sistema di controllo dei confini. Più è difficile attraversare i confini più i trafficanti costano. Più è difficile ottenere un visto, più diventano utili i trafficanti. È un sistema di regole che scegliamo noi. Siamo noi gli agenti di questo sistema, non i trafficanti”. E i soldi? “Sono un investimento. Sono un rischio, è come giocare d’azzardo”. Chi sono i trafficanti? “Spesso sono ex rifugiati, e mantengono un contatto con la comunità da cui provengono. Il traffico è molto più frammentato e stratificato di come viene raccontato. Dieci anni fa c’erano dei trafficanti che addirittura ti accompagnavano, ora è diventato troppo pericoloso. Più aumentano i controlli più tutto peggiora, più il viaggio diventa costoso. Abbiamo l’immagine del trafficante come di un boss mafioso, di un potente criminale. Non è così. Ci sono dei sistemi informali di fiducia, spesso conoscono i parenti. Cerchi un trafficante che speri non si approfitterà di te. In medio oriente è molto diverso dalla situazione del Messico”. Spesso passare un confine è anche una questione di fortuna, un poliziotto che si volta e non ti vede. “Ci sorprendiamo da quanti buchi ci siano nel sistema. Come quelli nella rete in Bulgaria dove sono entrato, quando ti avvicini vedi quelli che qualcuno ha aperto nei punti strategici. Più ti avvicini più vedi le falle nel sistema”.


Nell’agosto del 2021 c’è stato il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan. “L’Amministrazione Biden ha gestito una situazione impossibile nel modo peggiore”, dice Aikins: “La traiettoria della guerra era chiara, non era una guerra che poteva esser vinta da più soldi, più militari. Il modo in cui è avvenuto il ritiro ha distrutto molte vite, e io ero lì, a Kabul. La maggior parte delle organizzazioni giornalistiche ha fatto rimpatriare il personale, come il New York Times, ma essendo freelance sono rimasto. Ho visto vent’anni e due trilioni di dollari svanire in una nuvola di fumo, come un’illusione da cui ci si risveglia improvvisamente. Ho visto i talebani scendere giù dalle montagne, ed erano sorpresi tanto quanto noi di ritrovarsi a Kabul. Ma loro avevano la fede, credevano fosse la volontà di Dio. E c’erano masse disperate di persone che volevano raggiungere la salvezza ed erano bloccate da muri e filo spinato”. Lo stesso Omar, figlio di profughi, è cresciuto con gli americani a Kabul, “la sua vita inizia con una speranza: che l’occidente porti democrazia e prosperità. Ma è anche il fallimento di quel sogno a spingere i migranti ad andarsene”. Si parla tanto di Ronald Reagan ai dibattiti tra i repubblicani, ma Reagan nell’86 ha firmato un’amnistia per milioni di immigrati irregolari, è cambiato l’approccio della destra all’immigrazione. “Nel 1990, se mi ricordo bene, il Wall Street Journal, aveva pubblicato un articolo che chiedeva i confini aperti. Il problema della migrazione ha le sue radici nella disparità tra sud e nord, nell’ineguaglianza, quindi problemi insolubili. Più confini chiusi hai più, più economie criminali si creeranno intorno. Non è che dico di immaginarci un mondo senza confini, dove tutti possono viaggiare liberamente. Non ho una soluzione. Ma la domanda è: vogliamo peggiorare la situazione? Vogliamo costruire più muri, più confini, aumentare la polizia?”. Donald Trump ha vinto anche con lo slogan “costruiamo il muro”. “È un circolo vizioso, più è difficile muoversi più nasce la violenza. E si può interrompere solo cercando di capire come stanno le cose”.


Nel libro è citata una frase dell’antropologo Didier Fassin che dice che è in atto “una nuova economia morale che dà più valore alla sofferenza che al travaglio, più alla compassione che ai diritti”. E questo si vede nella valutazione di profughi di serie A e profughi di serie B. Iraniani che si spacciano per afghani, marocchini per siriani. “Nell’ambiente del post Guerra fredda i rifugiati non sono più considerati dissidenti politici. E quindi si passa da un linguaggio di diritti a un linguaggio di umanitarismo, si parla di ‘aiutare le persone’. E perché le aiuti? Perché si meritano il tuo aiuto. E chi se lo merita di più? Le persone più vulnerabili. E chi lo decide chi sono più vulnerabili? E questo è un linguaggio che i migranti imparano. La citazione che faccio di Italo Calvino tratta da Città invisibili si inserisce in questo discorso: ‘chi comanda il racconto non è la voce, è l’orecchio’”. “È un concetto occidentale quello sul rifugiato che si merita di attraversare il confine, e il rifugiato deve impararlo se vuole avere successo. Ma non è una cosa naturale, o stabile, è una questione storica”. A un certo punto a due amiche, due migranti, viene consigliato di passare per lesbiche, per riuscire a ottenere un visto. “L’idea di chi è più amabile cambia molto rapidamente. Per un periodo gli afghani erano quelli più degni di essere salvati, ma quanto è durato?”.