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Un mito da sfatare

Brutta reputazione. Il mito di Yayoi Kusama è eccessivo anche senza il problema del suo razzismo

Francesco Bonami

La riscoperta di alcuni commenti razzisti dell'artista giapponese, costretta a scusarsi a pochi giorni dall'inaugurazione della sua mostra, fa sorgere un quesito sulla figura di Kusama: ci è o ci fa?

Per definire una carriera “impeccabile” gli inglesi usano la parola “spotless”, senza una macchia. Della carriera dell’artista giapponese Yayoi Kusama, 94 anni, questo non si può proprio dire, avendo costruito tutta la sua carriera proprio sulle macchie, o poix, colorate che invadono tutte le superfici da lei usate per la propria arte. Louis Vuitton ha fatto di Kusama e delle sue macchie un cavallo commerciale con un successo globale eccezionale. Peccato che fra tutte le gioiose macchie colorate ne sia spuntata fuori una di unto o di caffè che rischia di rovinare a pochi passi dall’inevitabile traguardo (la morte) la reputazione di questo mito dell’arte contemporanea. Nella sua biografia del 2002, quando l’artista aveva 73 anni, intitolata Infinity Net,  sono usciti fuori passaggi e commenti inequivocabilmente razzisti nei confronti degli afroamericani che Kusama frequentava e vedeva quando negli anni Sessanta abitava a New York. Nulla di sorprendente, anche perché la cultura e società giapponese di quel tempo non è certo mai stata un campione di multiculturalismo. Ma in un’epoca di eccessiva ma giustissima correttezza, politica tutto fa brodo e sul razzismo non si fanno sconti a nessuno. Così il giorno prima di inaugurare una sua mostra al Sfmoma di San Francisco, Yayoi Kusama ha dovuto fare mea culpa scusandosi di quello che aveva scritto, onde evitare che il museo fosse costretto a prendere decisioni estreme, tipo quella di cancellare una mostra che preannunciava un enorme successo di pubblico. Pubblico che nella maggior parte dei casi non verrà mai a conoscenza delle affermazioni strampalate e fuori luogo di un’artista che da più di mezzo secolo ha deciso di vivere in una casa di cura per il disagio mentale.

La domanda, correndo il rischio di rispondere alla scorrettezza con ulteriore scorrettezza, “Ci è o ci fa?” viene però naturale. Alla quale segue però un’altra domanda: “Può il disagio mentale essere un alibi per il razzismo?”. Se uno è in grado di scrivere una biografia significa che ha sicuramente la capacità di mettere assieme pensieri e idee razionali tenendo a bada il proprio lato mentalmente instabile. Non solo. Kusama è sicuramente capace di controllare il proprio disagio quando si tratta di firmare succosi contratti per diventare la testimonial di un gigante della moda come Louis Vuitton, che recentemente gli aveva dedicato tutte le vetrine dei suo negozi in giro per il mondo. Crollate tutte le possibili attenuanti ecco che arriva la ciambella di salvataggio dell’età. Lasciatela stare, ha 94 anni e regge l’anima con la dentiera! Certo, nessuno vuole impiccarla anche perché i suoi commenti sui neri erano grotteschi e infantili, il che non vuol dire che fossero meno peggio visto che li ha scritti vent’anni fa quando l’anima la reggeva con i propri denti: l’attenuante di essere incapace d’intendere e di volere non è retroattiva. Detto questo, pur non potendola mettere fisicamente alla gogna, mi sembra opportuno ridimensionare il suo mito, eccessivo anche senza il problema del razzismo, e suoi sponsor dovrebbero fare due riflessioni sul continuare a usare le sue  macchie  a scopo di lucro. Infine, senza voler esagerare o fare paragoni azzardati, la storia insegna che l’anzianità non è una scusa per dimenticare gli errori, se non i crimini della gioventù. Lo insegnano le immagini di Pol Pot claudicante che veniva tirato fuori dalla giungla per essere processato. Sembrava impossibile che quell’omino con l’aria così dolce avesse potuto ordinare di ammazzare la gente prendendola a palate sulla testa per non sprecare i proiettili. Yayoi Kusama, povera donna, non è certo una criminale di guerra, al massimo potremmo soprannominarla Pol Dot.
 

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