Schegge di abisso

Il romanzo di Bret Easton Elli: uno spartito che si colloca tra “Cuore selvaggio” e “Twin peaks”

Marco Archetti

Ne "Le Schegge" lo scrittore americano è "il Francis Scott Fitzgerald degli anni Ottanta" e dà il meglio di sé

Primo pensiero a lettura terminata: chissà cosa ne farebbe David Lynch. Non ce ne voglia Luca Guadagnino che, pare, adatterà il romanzo e girerà una serie per la Hbo su script dello stesso Bret Easton Ellis  – le ragioni di interesse, dunque, non mancheranno – ma è davvero inevitabile chiederselo. Le ragioni sono molteplici, non tutte razionali, a volte banalmente nominalistiche o sinestetiche. Sarà per la casa del protagonista che affaccia sulla fatale Mulholland drive? Sarà per tutti questi anni Ottanta che tornano in una ventata tersa, resuscitati in una grande palette pastello che va dall’azzurro cielo delle Polo al verde acqua delle camicie di Ralph Lauren? Sarà per le Porsche Carrera di cui leggendo sembra di sentir l’odore di selleria e di cruscotto oppure delle Jaguar XJ6 verdi affusolate come canoe e delle Mercedes 450 SL color crema che sfrecciano verso il Valley Vista? Sarà per tutto quello Stephen King aleggiante e percepito (in cartaceo, erano gli anni in cui usciva “Cujo”, e su schermo kubrikiano, con “Shining”), oppure la responsabilità va addossata all’immancabile descrizione degli elementi estetici, qui minuziosamente repertati, di ogni video musicale degli anni Ottanta “prima che diventassero cliché”, ossia il pianoforte a mezza coda bianco sotto un lampadario e i Martini “bevuti da personaggi grotteschi ripresi col grandangolo”?

O magari per tutte le coincidenze che si impilano e per quel lento, sapientissimo alludere che cresce pagina dopo pagina e che sembra il corrispettivo letterario del rumore di fondo che, nei film di David Lynch, è il registro che determina l’atmosfera e la carica di sinistra aspettativa? Sarà tutta quella droga nell’aria, l’alcol nei bicchieri, gli Xanax buttati giù per far scendere l’ansia o l’effetto della botta, oppure i tantissimi brani musicali, molti dei quali ascoltati con il walkman? (A proposito: su YouTube trovate la compilation, ne avrete per sei ore; su Spotify ce n’è un’altra e sono dieci, in bocca al lupo). Sarà l’effetto di questo e di molto altro che pulsa nel vivido mazzone di queste pagine, compresi i baluginii psichici più distrubanti, ma è quasi automatico notare come tutto, in questo nuovo romanzo di Bret Easton Ellis scritto a tredici anni dall’ultimo, tradotto da Giuseppe Culicchia e pubblicato, come sempre, da Einaudi, rimandi a uno spartito che potrebbe collocarsi perfettamente tra “Cuore selvaggio” e “Twin peaks”.

Ellis torna alla garibaldina, non c’è che dire: inaffidabilmente autoreinventandosi e del tutto intenzionato a rifarsi per 737 pagine filate; a pagamento su Patreon – laddove il romanzo nacque come esperimento a puntate – ci sono anche trentatré ore di podcast con materiali inediti che appartenevano al medesimo mastodonte. 

Proprio come in un “Twin Peaks” e in tutta la letteratura ellisiana, la storia è una magnifica e estetizzante parabola sull’ossessione e sul dispendio, si snoda in un mondo circoscritto e procede intrecciata a una serie di morti e orrori di cui si macchiò il “Pescatore a strascico”, noto serial killer così battezzato dalla stampa (soprannome nato per scherzo in una conversazione privata tra due investigatori della sezione di Hollywood del Lapd), attivissimo a partire dagli anni Ottanta come terrorizzatore ufficiale della San Ferdinando Valley: fu un trucidatore di adolescenti, abile a introdursi nelle abitazioni e abituato a tartassare le vittime avvertendole con telefonate mute per poi dedicarsi a tremende operazioni quali la cucitura nei loro cadaveri delle viscere di animali domestici o, in almeno un caso, della fauna ittica di un intero acquario. Un serial killer che – apprendiamo – minò l’equilibrio psicologico del giovane Bret a partire dalla terza settimana dell’ultimo anno scolastico alla Buckley School, anno di grazia 1981, insieme ai sospetti e alle congetture nei confronti di Robert Mallory, un bellissimo nuovo arrivato dotato di passato ambiguo, bugia facile e un profumo allettante, “come se avesse appena attraversato un agrumeto”.

Ma il punto più interessante, l’aspetto che rende questo romanzo non certo un remake ellisiano da crisi di mezza età, men che meno un prequel e per nulla una lieta scampagnata “nella propria confort zone” (sì, c’è chi l’ha scritto, Signore pietà), è che nel romanzo i fatti sono evocati da un certo Bret Ellis, scrittore prossimo alla sessantina e famoso grazie al suo romanzo d’esordio intitolato “Meno di zero”, il romanzo che, quarant’anni prima, ha scritto al posto de “Le schegge”. Ma quarant’anni prima di cosa? Di un incontro, avvenuto nel 2019, ossia durante il cinquantaseiesimo anno d’età dello scrittore – uno scrittore i cui dati coincidono tutti con il Bret Easton Ellis che si chiama Bret in quasi ogni romanzo di Ellis ma occhio, come in “American psycho”, allucinata rielaborazione della figura del padre, e come in “Lunar park”, delirante rielaborazione della figura del figlio, tutto significa ma niente significa, quindi mettiamoci il cuore in pace e lasciamoci prendere in giro, che poi è il mestiere del lettore, spiegato magari male, ma in termini decisamente sufficienti.

Dicevamo. L’incontro. Mentre Bret è alla guida della propria Bmw ed è diretto a Palm Spring col fidanzato Todd, all’incrocio tra Holloway e La Cienega, a West Hollywood, sul marciapiede di fronte al Palihouse Hotel, vede una donna. E la riconosce all’istante. È ancora bella, indossa occhiali da sole e ha il cellulare premuto contro l’orecchio. Si chiama Susan. Tutto è così violento e possente – vederla all’improvviso, metterla a fuoco e passar via col mancafiato – che “venni paralizzato”, scrive Ellis, “da una cappa di terrore che subito mi avvolse gelandomi il sangue nelle vene. La visione di quella donna in carne e ossa fece riemergere la paura, che iniziò a inghiottire ogni cosa, proprio come nel 1981”. Romanzo innescato. Da qui si può solo procedere: la paura genera evocazione e l’evocazione è tutto il romanzo, questo movimento unanime e travolgente, questo gesto imperioso di resurrezione di giorni ormai scomparsi nel retrovisore, questa direzione d’orchestra che accorda le voci a una storia che parla da laggiù, dal pozzo della giovinezza, dalle terre del passato, dal centro dell’Impero e cioè Los Angeles, 1981, da un’estate sul ciglio dell’orrore riconsiderata con lo sguardo di oggi, lo sguardo di un uomo che sa bene una cosa, che è poi la necessità che attraversa tutta la sua narrativa: raccontare è cercare, per tutta la vita, una prospettiva di sé stessi. Succede anche con questa storia, che parla di Robert, Susan, Thom, Deborah, Ryan e di tutti gli altri della Buckley, e di un tempo in cui l’innocenza era ignara di sé e viveva, per questo, la sua massima consistenza, invisibile allora. Il serial killer è quasi un alibi – un alibi che regge benissimo – perché ciò che alimenta questo romanzo che, nel titolo, racconta sé stesso e anche tutti gli altri che l’hanno preceduto, è molto più importante. 

“Le schegge” racconta il potere della fisicità. E racconta un’estetica, quella dell’insensibilità. Racconta l’ambiguità del privilegio e la forma pura del desiderio (nota a margine: tutti coloro che hanno parlato di romanzo “fortemente sessualizzato” hanno mai avuto diciassette anni?). Racconta questa radiosità scellerata della giovinezza, unica protagonista di un film in cui tutto il resto è relegato sullo sfondo. “Non me n’era fregato niente che a novembre Ronald Regan fosse stato eletto presidente: non aveva avuto alcun significato per il diciassettenne che ero”, scrive Ellis, conscio che l’unica forza di verità capace di stanare chi la guarda, a diciassette anni, ce l’ha la bellezza. “La paura si mescolava alla lussuria”, fa dire Ellis a Bret che fissa, attratto e pieno di sospetto, il misterioso e sensualissimo Robert Mallory. La promiscuità più gioiosa, del tutto refrattaria alla smania di definirsi, tripudia pagina dopo pagina, e Bret Easton Ellis è un aedo che canta un’epoca ormai spenta. E anche se non sta morendo, nel raccontare l’irruzione della Morte in quel mondo di diciassettenni onnipotenti che soffrono in Mercedes, sente tutta la morte che è, qui e ora, il ricordo, antidoto temporaneo al tempo e all’inevitabile allontanarsi dal cuore della vita, da quel 1981 in cui “siamo stati giovani in una stagione irripetibile”.

Quando Bret, scioccato di fronte alle foto del primo cadavere della sua vita, ne percepisce la tremenda crucialità, dice a sé stesso: eppure io quel corpo l’ho amato, l’ho memorizzato, era lì, era qui, è con me indelebilmente e per sempre, ma adesso ha finito di esistere. E lo dice dal cuore di un’età e di un mondo molto precisi, in cui la fisicità fu la vera droga, il vero incantesimo, un mondo che capì all’improvviso che nulla poteva durare e che nessuno di loro sarebbe più stato inviolabile. In un passaggio successivo Bret parla di un altro corpo che lui aveva “amato, leccato, posseduto” e che adesso se ne stava immobile “coperto di lividi”, e la densità con cui lo fa è sconvolgente, in perfetto equilibrio tra necrofilia sentimentale, afflato erotico e la grande dichiarazione d’amore di una carne che ha posseduto un’altra carne e ora lotta con il nulla.

Il nulla: altro grande tema ellisiano. Perché arriva la morte e non è più possibile credere alla bellezza. Arriva la morte è non è più possibile credere ad alcuna innocenza. E tra locali più frequentati di un alveare, sbronze, patti col diavolo, ricchi che piangono, droghe e tranquillanti, lo scrittore torna a dar forma a un mondo con un abracadabra dei suoi, ce lo fa respirare e toccare, mostrandoci tutto il potere della letteratura. “Ero uno scrittore già a cinque anni”, ha detto senza mezzi termini a Brut France una manciata di mesi fa mentre rilasciava un’intervista per la promozione europea del romanzo. Gli si crede senza esitazione: anzi, uno scrittore lo è già a cinque anni come minimo. E anche a questo giro – un giro più lungo del solito – bastano poche pagine per ritrovare un talento che, dopo qualche tentennamento (scrivo ancora? non scrivo più?) insorge. Pagine caratterizzate dalla sensazione che si siano scritte da sole, che evochino sé stesse senza alcuna collaborazione dell’autore, perfettamente fluide, perfettamente tentacolari. Ma nessun autore, per quanto vocato, scrive perché “gli viene facile”, al contrario: scrive perché gli viene difficile, come naturale che sia (scrivere non lo è) ma sa benissimo come fare per trovare quella prosa fluida, libera, adatta al mestiere che le è proprio, quello di evocare, tratteggiare, issare mondi dal nulla. Esemplari, in questo senso, le prime cento pagine: non accade sostanzialmente niente eppure accade tutto, sentiamo i brividi e ci facciamo rapire, pura lezione di scrittura, perché il talento di Ellis non solo riesce a ricreare un tempo andato – sempre lo stesso, lamenta qualcuno, fingendo di non sapere che ognuno ha la sua Combray – ma a restituircene l’aspetto più importante: l’atmosfera. E l’indicibile, si sa, è il mestiere dei migliori. 
Queste sono pagine in cui c’è un uomo maturo che ricorda, e il ricordo combatte con sé stesso, il ricordo vorrebbe risolvere e invece confonde, inguaia, e intanto è immerso in una luce liquida, arancione, calda, da eterno tramonto a Los Angeles, e tutto suona così straziante, sfuggito irrimediabilmente, un mondo raccontato col disincanto da una parte e con l’adorazione dall’altra, incubo contro sogno, memoria volontaria e memoria involontaria, corpi e odori e irraccontabili soglie, imponenti mitologie e caduta massi su un’età di imperdonabili leggerezze. 

Bret Easton Ellis è il Francis Scott Fitzgerald degli anni Ottanta, quando il mondo era a forma di party in piscina e intanto, dietro la porta, c’era un uomo con la scure. Nei suoi romanzi ha inseguito e plasmato un’idea platonica di quegli anni e il suo dono per la narrazione lirica, ne Le schegge, dà il meglio di sé. Tutto si svolge nello spazio di un’estate, proprio come nel Grande Gatsby. E come Orazio, Bret “trae il suo respiro dal dolore” per raccontare Amleto, ma Bret è il Nick Carraway non di uno solo, ma di tutti gli altri: di Robert in primis, e poi di Thom e di Susan. “I libri non sono specchi, ma finestre”, ha dichiarato di recente Ellis in un’intervista. Predica bene, razzola anche meglio, e ci regala una storia che comincia proprio come finiscono quelle grandi: “Quella ragazza, io, la conoscevo…”.

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