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in teatro

Voce d'angelo: così Senesino conquistò l'Inghilterra

Damiano Michieletto

Grazia e potenza, il dolore di un corpo mutilato e la gloria di una vita da star. Il successo settecentesco del "Giulio Cesare d'Egitto" torna in scena al Teatro dell'Opera di Roma

Dopo aver mietuto grandissimi successi ed essere stato osannato sui palcoscenici di mezza Europa, nel 1736 un cantante lirico italiano alla soglia dei sessant’anni se ne torna nella sua città natale, Siena, per godersi in pace la vecchiaia. Può permettersi una vita sontuosa perché nel corso della sua carriera ha guadagnato un’enorme fortuna dato che, per oltre un decennio, è riuscito a brillare come la star assoluta della scena inglese venendo ricoperto di sterline e di ghinee. Ritornato in Italia vivrà gli ultimi vent’anni che gli restano ritirato nel palazzo che si è fatto costruire in centro a Siena, in copagnia di una scimmia e di un pappagallo. Di cantanti lirici ce n’erano parecchi a Londra; perché dunque questo italiano, figlio di un modesto barbiere di Siena e conosciuto quindi col nome di Senesino, riesce ad impressionare Händel, il celebre compositore, che deciderà di volerlo in tutte le sue opere? Perché i teatri sono disposti a spendere un patrimonio pur di avere il suo nome in cartellone?

In effetti un segreto c’è. Un segreto dai risvolti drammatici e dolorosi, che inizia quando Senesino ha 13 anni. A quell’età gli capita una cosa che cambia radicalmente il corso di tutta la sua vita, un evento irreversibile destinato a trasformare per sempre la sua persona: Senesino, all’età di 13 anni, viene castrato.  

La castrazione, formalmente vietata, è all’inizio del Settecento una pratica diffusa e il maggior numero di interventi viene praticato nello Stato della Chiesa. Interventi da eseguirsi con rapidità: prima che avvenga la muta vocale, si deve interrompere il processo fisico che produce il testosterone e bloccare così il naturale sviluppo fisico del corpo. Come a voler fermare il tempo, fare in modo che almeno una caratteristica del corpo, la voce, non sia destinata a subire la caducità delle cose umane, ma riesca a mantenersi pura, candida, illibata, innocente, vergine. Una voce bianca e immacolata, per sempre.

Piuttosto tardi anagraficamente rispetto alla pratica del tempo, Senesino a 13 anni viene dunque addormentato con un impacco a base di oppio e messo sotto le mani di un norcino, un macellaio specializzato nella lavorazione dei maiali, il quale gli amputa i testicoli. In molti casi i castrati sono orfani o ragazzi che provengono da famiglie povere: la miseria fa mercanzia del corpo umano. Non è una sua scelta, ovviamente, ma è la logica spietata del profitto a dettare la decisione di compiere questo intervento disumano: l’ambizione di farne un esemplare raro, un fenomeno da poter sfruttare economicamente. Le possibilità sono tre:  se la cosa funziona i genitori e il maestro di musica diventeranno ricchi; se non va bene il ragazzo sarà destinato al sacerdozio; se invece l’operazione andasse male, il ragazzo morirà dissanguato sotto il coltello o a seguito di infezioni. E, quest’ultimo, non era un caso raro. Al Senesino accade la possibilità numero uno: l’operazione va bene e lui si rivela il più bravo di tutti. Per i suoi parenti è un successo; il Senesino gli farà guadagnare un sacco di soldi perché la sua voce crea il presupposto di un’estasi. L’estasi che Maria sente quando vede l’angelo che si avvicina a lei. Con che voce infatti potrebbe parlare l’angelo di Simone Martini quando annuncia a Maria la sua gravidanza? Esattamente con la voce di Senesino. Il sogno di creare un essere umano che arrivi al divino: riuscire a realizzare la voce degli angeli. L’estasi è anche quella che il pubblico prova nel sentire per la prima volta quel suono indefinibile, e la prima volta avviene sette anni dopo, quando a vent’anni il Senesino debutta a Venezia nel Teatro di San Cassiano. Una voce che non ha sesso: non è uomo, non è donna. E’ capace di unire grazia e potenza. 

Che identità ha questa voce? Oggi la definiremmo genderfluid come raccontata nel film “Girl” di Lukas Dhont. In quella storia, il/la protagonista per affrontare la sua disforia di genere arriva a compiere un gesto terribile ed estremo. Se il Senesino fu costretto a subire un’amputazione allo scopo di poter arrestare la pubertà, nel film la trasgender Lara decide autonomamente di arrestare la sua pubertà e arrivare a cancellare il suo pene. Non so se Senesino, trovandosi privato della possibilità di procreare, si ponesse delle domande sulla sua identità. Di sicuro si può immaginare che l’accettazione del  proprio corpo mutilato senza la sua volontà possa aver comportato una profonda sofferenza, forse parzialmente compensata in seguito dall’enorme ricchezza e dal riconoscimento pubblico ricevuto. Il Senesino infatti diventa una vera star dei palcoscenici europei ed è il protagonista di una delle opere più celebri di Händel, il “Giulio Cesare in Egitto”, che debutta nel 1724 a Londra e che in questo mese è in scena  al Teatro dell’Opera di Roma.

“Giulio Cesare in Egitto” è un’opera che si pone già nel suo titolo come il ritratto di un uomo in un momento molto preciso della sua vita. Cesare è arrivato in Egitto, siamo nel 48 a.C. cioè quattro anni prima della sua morte: il tempo di fare ritorno a Roma e Cesare troverà le lame dei congiurati a dargli l’estremo saluto. “Giulio Cesare in Egitto” di Händel è un’opera che si presta ad essere considerata dunque come una meditazione sulla morte. La trama parte non a caso proprio con una morte, quella di Pompeo; Cesare osserva la testa decapitata di Pompeo e sembra che il suo pensiero sta soppesando con sempre più consapevolezza quello che è il destino riservato ai tiranni. Lui, il tiranno sopravvissuto ad innumerevoli campi di battaglia nel corso della sua esistenza, verrà pugnalato a morte nella comodità della sua città dai suoi stessi concittadini togati. Il tirannicidio è del resto uno schema narrativo molto popolare. Un altro Giulio Cesare è quello raccontato da Shakespeare, che nella sua opera ci consegna anche molte altre trame, come quelle di “Amleto” o “Macbeth”, dove i personaggi si armano per compiere l’uccisione del tiranno.

Nel “Giulio Cesare in Egitto” mentre la moglie di Pompeo, Cornelia, e suo figlio Sesto affrontano l’elaborazione del lutto, il percorso di Cesare sembra invece quello di un uomo che non ha più obiettivi né un’autentica visione di governo: ha già conquistato tutto, il “De bello gallico” con le sue memorie militari è già terminato, la sua fronte è già incoronata di alloro. Sembra un uomo stanco e invecchiato. Nel corso della vicenda, infatti, Cesare non fa praticamente nulla: osserva, subisce, resta spettatore passivo. Manipolato dall’astuta Cleopatra e dallo psicotico Tolomeo, Cesare sembra scongiurare il pensiero della morte correndo dietro alla gonnella di una serva frivola, senza nemmeno comprendere che in realtà si tratta della stessa Cleopatra che lo sta ingannando. Ma come? Uno stratega militare, un dittatore astuto e spietato a capo del più grande impero che esista, finisce per essere in balia delle maliziose provocazioni di una servetta? Non c’è da stupirsi, non è affatto una dinamica paradossale, antica o anacronistica; anzi i paralleli contemporanei sono numerosi, basti pensare al sexgate di Bill Clinton, protagonista di un tradimento extraconiugale con una stagista ventiduenne e perciò costretto ad affrontare un impeachment. Che il contraltare del potere massimo sia il massimo bisogno di svago e frivolezza è nella biografia di molti personaggi pubblici della politica i quali, a differenza del potere privato che può mimetizzarsi e mantenersi nella riservatezza, sono destinati a finire nelle vetrine della cronaca giornalistica. 

Nel “Giulio Cesare in Egitto” l’imperatore romano è ritratto senza un esercito, senza una strategia e senza un compito, quasi abbandonato a se stesso e affannato solo a salvare la pelle. Non sarà lui a vendicare la morte di Pompeo, ma sarà Sesto, il figlio, che uccidendo il re egizio pone fine all’arco narrativo della vicenda annunciando allo stesso tempo la sua personale maturazione. Come dentro alla tela di un ragno, Cesare è in balia delle mosse altrui e ne esce un uomo fragile e vulnerabile, diverso dall’effigie marmorea e inscalfibile con cui siamo abituati ad immaginarlo.

Di opere liriche su Giulio Cesare ne erano state già fatte in quegli anni. Perché quella di Händel è la migliore? Perché musicalmente Händel riesce a far sua tutta la tradizione italiana e portarla al massimo livello. Ma anche la parte narrativa ha la sua parte in questo successo. Quarant’anni prima di Händel un altro compositore, il veneziano Antonio Sartorio, metteva in musica lo stesso identico libretto. Lo stesso? Non del tutto. Il libretto del “Giulio Cesare in Egitto” di Sartorio (scritto da un pedante canonico) ha in tutto 66 scene, quello di Händel ne ha 32. Meno della metà, per raccontare la stessa identica storia. Vuol dire che Händel ha avuto a disposizione un bravo editor, in grado di ripulire il libretto originale di tutto il farraginoso retaggio barocco per indirizzarlo verso una sintesi e una limpidezza maggiore. Il povero Sartorio, anche se avesse composto una musica sublime, avrebbe dovuto muoversi con una pesante palla al piede che non gli avrebbe mai permesso di realizzare un’opera vibrante di freschezza. Questo vale come esempio anche per comprendere come la delegittimazione letteraria  che buona parte dei compositori del secondo Novecento hanno voluto assecondare, sia stata un grossolano e miope errore, che di fatto ha già dimostrato un fiato cortissimo.  

In ogni caso, per sopperire alla mediocrità letteraria dei libretti delle opere barocche gli impresari potevano contare su Senesino e su tutti i castrati che, come lui, costituivano un’attrazione e una risorsa in grado di restituire al pubblico il prezzo del biglietto. Bastavano queste voci sublimi, estatiche e divine. Non serviva molto altro. Pur avendo alle spalle solo una semplice tela dipinta e indossando dei costumi ingombranti; pur dovendo fare i conti con farraginose trame mitologiche e improbabili personaggi restituiti con una recitazione leziosa; pur nella staticità narrativa di una interminabile sequenza di arie tripartite. Nonostante tutta questa zavorra, ad un certo punto lo spettatore sapeva che sarebbe arrivata una voce angelica e irreale, educata con una rigidissima disciplina di studio; e questa voce sarebbe riuscita a fargli trattenere il fiato e a fermare il tempo. Esattamente come il tempo era stato fermato e congelato nel corpo di Senesino. Una laringe immacolata, pagata con l’amaro prezzo di una chirurgia praticata di nascosto da un macellaio. Così il nostro Senesino, un uomo robusto alto oltre un metro e novanta, di ritorno in terra toscana dopo una carriera sfavillante, non poté avere figli a cui affidare la sua ricchezza o con cui condividere le giornate. Si ritirò in una solitudine che le cronache del tempo ci restituiscono come bizzarra e umorale, solo con la compagnia di un pappagallo e di una scimmia. 

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