Due immagini da "Summer Nights, Walking" di Robert Adams (Steidl, 2023) © Robert Adams  

La luce delle Notti d'estate

Luca Fiore

La capacità di commuoversi per un filo dell’elettricità illuminato dalla luna. Le foto dell’americano Robert Adams, come un haiku, contengono l’incontenibile. Oggi è ripubblicato il suo libro più famoso

C’è una poesia di William Blake intitolata “The Evening Star” che recita così:

 

Tu, angelo dai capelli chiari della sera, / ora, mentre il sole riposa sulle montagne, accendi / la tua luminosa fiaccola d’amore; la tua corona radiosa / indossa e sorridi al nostro letto serale! / Sorridi ai nostri amori, e mentre disegni / le tende azzurre del cielo, spargi la tua rugiada d’argento / su ogni fiore che chiude i suoi dolci occhi / in un sonno tempestivo. Lascia che la tua ala occidentale dorma sul / lago; parla in silenzio con i tuoi occhi scintillanti, / e lava il crepuscolo con l’argento. Presto, molto presto, / ti ritiri; allora il lupo si scatena, / e il leone guarda attraverso la foresta oscura. / I velli delle nostre greggi sono coperti dalla / tua sacra rugiada; proteggili con il tuo influsso.

 

I versi del poeta inglese sono riportati all’inizio di “Summer Nights, Walking”, forse il più famoso libro del fotografo americano Robert Adams, ora ripubblicato dall’editore tedesco Steidl, dopo che la seconda edizione, per i tipi di Aperture, era andata fuori catalogo e diventata un oggetto da collezione (e di culto). Adams, come solitamente fa con le sue pubblicazioni, scrive un breve testo a introduzione delle sue sequenze di immagini. In questo caso, l’autore dichiara: “Ricordiamo fin dall’infanzia la bellezza e la pace delle sere d’estate e desideriamo credere che ciò che abbiamo visto allora sia senza tempo. E’ stata questa speranza a guidare la mia selezione di immagini per la prima versione del libro, ‘Summer Nights’, nel 1985. Negli ultimi anni, tuttavia, quando ho rivisto le fotografie che avrei potuto scegliere ma non ho scelto, mi è sembrato che se avessi incluso una varietà più ampia, il risultato sarebbe stato, anche se meno armonioso, più convincente, più vicino alla nostra reale esperienza di meraviglia, ansia e immobilità. La preghiera di William Blake che precedeva il libro originale rimane, credo, appropriata per questa revisione ed espansione, riconoscendo lo splendore della Creazione ma anche la realtà del lupo e del leone”.

  

“Desideriamo credere che ciò che abbiamo visto allora sia senza tempo”, scrive Adams delle sere d’estate nell’infanzia

  
In Italia, come spesso accade per i grandi maestri della fotografia, non importa se siano americani o italiani, il nome di Robert Adams, classe 1937, è sconosciuto fuori dalla stretta cerchia degli esperti del settore. Eppure, per molti, si tratta del maggior fotografo americano vivente. Joshua Chuang, fino a qualche settimana fa alla guida della Yale University Art Gallery, oggi direttore per la fotografia della multinazionale dell’arte Gagosian, è la persona che negli ultimi quindici anni ha lavorato di più con il maestro. Al Foglio confessa: “Non so se ha senso considerarlo il più grande – dipende che parametri si usano – ma quello che posso dire è che non riesco a pensare a nessun altro artista americano che abbia affrontato in modo così preciso l’enigma dell’essere umano e di come si faccia oggi ad attraversare le vicende di questo mondo”. Per Chuang la genealogia di Adams è quella degli Edward Hopper, dei Charles Burchfield e dei John Sloan, “che hanno rappresentato la vita riconoscendone la bellezza e, insieme, la crudeltà”.


Ma per capire la traiettoria intellettuale di questo gigante della fotografia, che ha scritto, fra l’altro, alcune delle pagine più belle sull’esperienza artistica tout-court, raccolte in “La bellezza in fotografia” (edizione italiana curata da Paolo Costantini per Bollati Boringhieri) e “Lungo i fiumi” (Itaca/Ultreya, a cura di Giovanni Chiaramonte), vale la pena ripercorrerne la vicenda biografica. Robert Adams nasce 86 anni fa a Orange nel New Jersey, una cittadina a poche decine di chilometri da New York, da una famiglia fedele alla Chiesa metodista. Nel 1947, gli Adams si trasferiscono a Madison, nel Wisconsin, per poi approdare nel 1952 alla periferia di Denver, in Colorado, in cerca di un clima migliore per curare l’asma del piccolo Robert. L’impatto con il paesaggio del West è, all’inizio, destabilizzante. “Quella che scopre è un tipo tutto particolare di bellezza”, spiega Chuang: “Che non è quella legata al sublime, ricercato dai fotografi che lo avevano preceduto, la wilderness dei parchi naturali, ma è un fascino che ha a che fare con l’abbraccio della solitudine e con il silenzio”.

 

Il padre che lo porta in montagna, i Boy Scout, la letteratura, l’esperienza con le Chiese battiste 

 

Da ragazzo frequenta i Boy Scout e il padre, amante della natura, lo porta con sé in escursioni in montagna e a fare rafting. “Ricordo quanto [il Colorado] mi sembrò desolato, venendo dal Wisconsin”, ha raccontato nel 1978 in una conferenza a New York: “Anche in primavera in apparenza non succedeva niente di bello, appena un po’ di vento in più. Solo a poco a poco ho imparato a prevedere l’arrivo dei colombi dal Messico, il fiorire della cicoria… succedevano un sacco di cose meravigliose”. Il primo contatto con la fotografia è del 1955, quando la sorella Carolyn gli regala il catalogo di “The Family of Man”, la leggendaria mostra curata da Edward Steichen per il Moma e che andò in tour in decine di città americane ed europee e approdò anche al museo di Denver. Nonostante la passione per le arti visive, Adam si iscrive ai corsi di Letteratura inglese, prima alla Colorado University di Boulder, poi alla University of Redlands in California, dove si laurea, e quindi alla University of Southern California, per il dottorato. L’esperienza alla Redland, ateneo fondato dalle Chiese battiste americane, è ambivalente. Da una parte gli fa passare il desiderio di intraprendere la carriera ecclesiastica, dall’altra è intellettualmente coinvolgente. L’incontro che cambia la vita di Adams è quello con il professor William W. Main. Racconta Chuang: “Era un pianista jazz, uno che non perdeva occasione per prendersi gioco della pedanteria altrui. Citava con disinvoltura Nietzsche e la Bibbia, non aveva peli sulla lingua. Diceva: ‘I libri dovrebbero mordere il lettore’”.

 

Durante un seminario sulla letteratura europea del XX secolo, Adams affronta “Ritratto dell’artista da giovane” e “Ulisse” di James Joyce. Si concentra sulla figura di Stephen Dedalus, che nel “Ritratto” intraprende un percorso che va dall’autoindulgenza, passa per la religiosità e, infine, approda all’arte. Tuttavia, nel “Ulisse”, Dedalus emerge come un aspirante poeta il cui potenziale creativo rimane inespresso. Adams sostiene che Dedalus fallisce come artista perché non riesce a conciliare il suo amore per la bellezza con la convinzione che Dio sia presente ovunque, anche nella routine quotidiana e nelle situazioni meno affascinanti, come un “grido nella strada”. Inoltre, Adams interpreta il declino di Dedalus come un  ammonimento contro una deriva estetizzante, che “esige il culto della bellezza, tutt’altro che un tratto universale del mondo dell’uomo, ed esclude così il culto di Dio, il grande comune denominatore dell’esistenza”. L’altro tema a cui si interessa, spiega Chuang, è quello dell’Edipo di Sofocle. “Per il giovane Adams, il drammaturgo greco intendeva raffigurare l’essere umano come contemporaneamente consapevole e ignorante, libero e determinato dal fato, innocente e colpevole. Per lui i drammaturghi europei contemporanei avevano semplificato questa vicenda, rifiutando di riconoscere la natura paradossale dell’umanità e, di conseguenza, ridimensionandola”. Un altro autore che segna la formazione del fotografo è il teologo protestante Reinhold Niebuhr che, nel suo “Il destino e la storia” scrive: “Il Cristianesimo e la tragedia greca concordano nel ritenere che colpa e creatività siano inestricabilmente intrecciati. Il peccato accompagna veramente ogni atto creativo, ma il male non è parte della creatività; è conseguenza dell’egocentrismo e dell’egoismo dell’uomo con cui egli distrugge l’armonia dell’essere”.

  

Impara la tecnica da Myron Wood, ammira Ansel Adams. La ferita nel rapporto fra uomo e paesaggio

  
Robert Adams acquista la sua prima macchina fotografica nel 1963 e inizia a usarla nel tempo libero nei dintorni di Denver, mentre insegna Letteratura al Colorado College di Colorado Springs. Inizia a studiare sulle riviste di fotografia (Camera Work e Aperture) e impara la tecnica dal documentarista Myron Wood. Tre anni dopo compra una stampa di “Moonrise, Hernandez, New Mexico, 1944” del grande fotografo Ansel Adams. Spiega Chuang: “E’ immagine anomala rispetto alla poetica del sublime tipica dell’artista californiano. Non abbiamo solo il paesaggio, con le montagne innevate sullo sfondo, ma un villaggio in mezzo alla pianura. C’è una chiesa di mattoni di fango e il cimitero. C’è relazione profonda tra la natura e l’esistenza dell’uomo. Un’esistenza tutt’altro che eroica, ma umile e quotidiana”. E’ un tema, quello del rapporto tra paesaggio e uomo, che resterà sempre al centro della poetica di Robert Adams. Una ferita mai del tutto rimarginata. Spiegava infatti, al suo ritorno a casa dopo gli anni dell’università: “Sono tornato in Colorado solo per scoprire che è diventato come la California… I luoghi dove ho lavorato, dove sono andato a caccia, dove ho fatto le mie scalate e i fiumi, tutto era in via di distruzione e la mia domanda disperata è stata come sopravvivere a questo”. La wilderness era minacciata dall’attività disordinata degli uomini, una frenesia edilizia che ai suoi occhi appare come un turbine di tracotanza. 


Ma è nel 1968 che avviene una svolta che porterà l’artista a intuire una via d’uscita a questa paralisi, che prima ancora che creativa era morale: come poter fotografare il paesaggio assediato dall’attività incontrollata dell’uomo? L’innocenza è persa per sempre? L’occasione è un viaggio in Europa, dove è invitato dai genitori della moglie Kristin, che abitano in Svezia. Adams visita in Germania diverse chiese progettate dall’architetto Rudolf Schwarz, amico del teologo Romano Guardini. E’ colpito in particolare da St. Christophorus a Colonia che, poi dirà, mostra come uno spazio semplice e austero possa “contenere l’incontenibile”. Secondo Chuang, Adams riconosce nell’opera di Schwarz una via praticabile per riconciliare l’aspirazione alla bellezza e la realtà contraddittoria dell’esperienza umana. Erano edifici che, in certo senso, nascevano dalla tragedia dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale e che, nonostante tutto, riuscivano donare un senso di pace. “Tornato a casa, vuole seguire questa strada: ogni suo fotogramma diventerà un contenitore per l’incontenibile. Le sue immagini sono delle specie di haiku, in cui ogni dettaglio è necessario. Forma e contenuto coincidono. Ed è ciò che lo differenzia dagli altri fotografi della sua generazione come William Eggleston o Stephen Shore, in cui il linguaggio prende il sopravvento sul contenuto, che diventa quasi irrilevante”.


Per Giovanni Chiaramonte, la sua fotografia “rivela una visione fondata sulla dimensione analitica della forma, poeticamente vicina a Paul Cézanne, lontana da ogni enfasi retorica nell’inquadratura e nella tonalità di stampa, che privilegia il nitore equilibrato dei grigi al contrappunto dei bianchi diafani e dei neri profondi che contraddistingue vedutisti precedenti come Ansel Adams, Edward Weston, Minor White”. Per John Szarkowski, mitico curatore di fotografia del Moma che lo consacrerà con una mostra del 1979: “Le sue immagini hanno una misura così civile, equilibrata e rigorosa ed escludono a tal punto l’iperbole, il gesto teatrale, l’imposizione morale e ogni effetto espressivo, che qualche osservatore potrebbe trovarle noiose… Qualcun altro invece, su cui ogni urlato eccesso della retorica convenzionale ha perso il suo potere, può trovare in queste immagini un arricchimento, una sorpresa, un insegnamento, un chiarimento, uno stimolo, e magari una speranza”.


“Summer Nights, Walking” è forse la sintesi più compiuta di questa poetica. Realizzato tra il 1976 e il 1982 attorno alla sua casa di Longmont, in Colorado, mostra notturni di strade vuote, sentieri di campagna, margini di boschi. Nuvole ancora illuminate dagli ultimi raggi di sole contro il paesaggio già entrato nel buio. Ombre di alberi proiettate sulle pareti delle villette bianche. Una giostra, come un’astronave, pronta a decollare. Ci mostra ciò che la maggior parte di noi dà per scontato, ma che raramente nota: le poche zone del mondo visibili di notte sono delineate da una combinazione di luce solare residua (spesso quella riflessa dalla luna) e di illuminazione artificiale (lampioni, insegne di negozi, fari di automobili). La fotografia è perfettamente in grado di delineare i contorni delle cose in queste strane condizioni, ma nessuno prima di Adams si era preso la briga di notarle con tanta raffinatezza. Scriveva Luigi Ghirri: “Adams cerca più nella luce che nel paesaggio il nodo narrativo; e la sequenza notturna è più uno studio sulla luce che non lo sguardo sul mondo visto di notte. La sua serie ‘Summer Nights’ sembra ricordare il buio verso cui ci avviamo, un’atmosfera da fine millennio accentuato dai toni del suo bianco e nero, il tentativo poetico di vedere ancora qualcosa”.

 
Che, alla fine, sia la luce stessa, ad essere il vero contenuto di tutta la fotografia di Adams, è lui stesso a suggerirlo nel suo saggio più celebre “La bellezza in fotografia”: “William Carlos Williams dice che i poeti scrivono per una sola ragione: dare testimonianza dello splendore (termine impiegato per definire la bellezza anche da Tommaso d’Aquino). E’ una parola utile specie per il fotografo, perché riguarda la luce: una luce di irresistibile intensità. La forma a cui l’arte aspira è di una luminosità assoluta, ma è anche così intensa da non poter essere guardata direttamente. Siamo quindi costretti a intuirla dal riflesso frammentario che deposita sui nostri oggetti quotidiani: l’arte non potrà mai definire pienamente la luce”.


Negli anni Robert Adams, oggi ritirato e silenzioso quasi fosse una specie di Cormac McCarthy della fotografia, è diventato un punto di riferimento per molti giovani fotografi che gli scrivono per chiedere consigli e pareri sul proprio lavoro. Lui, fino a che la vista glielo ha potuto permettere, ha risposto per iscritto per posta ordinaria. E’ il caso di Gregory Halpern, uno dei talenti più in vista della nuova fotografia americana che, mandandogli le bozze di “Zzyxz”, che diventerà un grande successo editoriale, si vide rispondere con questo biglietto: “La bellezza e la sua implicazione di promessa è la metafora che dà all’arte il suo valore. Ci aiuta a scoprire alcune delle nostre intuizioni migliori, quelle che ci incoraggiano alla cura”.

  

Nella loro muta eloquenza, le sue immagini sono il prodotto dell’agitarsi di un animo tutt’altro che pacificato

  
Le immagini di Robert Adams, nella loro muta eloquenza, sono il prodotto dell’agitarsi di un animo tutt’altro che pacificato, capace di indignarsi per le ingiustizie (soprattutto estetiche, ma non solo) e di commuoversi per un filo dell’elettricità illuminato da un raggio di luna. Una sensibilità intelligente, che non ha mai accettato di ridurre ciò che si vede a solo ciò che si vede. Rispondendo a William McEwan che gli chiede che cosa stia cercando di portare a compimento nella sua vita di fotografo, Adams risponde: “Imparare come non lamentarmi, credo. Una volta Robert Frost ha detto che il miglior compimento nella vita è imparare ad essere cordiali; una cosa che sento molto vicina, e molto difficile. Io sono come una donna che, dopo aver portato il suo bambino in spiaggia, se lo vede strappare in mare da un’ondata. Lei promette a Dio che, se gli sarà restituito, non chiederà più nulla. E l’onda successiva riporta il bambino sano e salvo sulla spiaggia. Lei corre ad abbracciarlo, ma si accorge che il bambino ha perso il cappello. ‘Il cappello, Signore’, chiede lei. ‘Dov’è finito il cappello?’”.

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