I libri degli altri
Il lettore renitente. Fabio Vacchi non si è fatto arruolare dalle mode sperimentaliste
I “maestri dell’osteria”, le musiche per Olmi e il sodalizio con Amos Oz. Poi Conrad, Musil e tantissima poesia
Si comincia a sorpresa, con la celebrazione delle osterie. Ovviamente non tutte le osterie, ma “quelle osterie là”, le osterie di una volta, quelle di un’epoca precisa. Le osterie col bancone d’acciaio e i tavoli a cui ci si incollava coi gomiti. Le osterie ombelico culturale involontario. Le osterie-istituzione, le osterie trasandate e multiformi nate per mescere vino killer e servire brandelli di liceo aristotelico, insomma, quelle fatte per finire in una canzone di Francesco Guccini.
Per tutta l’estate, ogni settimana sul Foglio trovate l’appuntamento di Marco Archetti con un “bibliomane” diverso. Interviste a intellettuali, professori e scrittori per farci raccontare i libri che li hanno formati e appassionati. L’11 luglio abbiamo pubblicato “Libri che pensano”, intervista al filosofo Umberto Curi, il 18 “Alla ricerca di Proust”, alla francesista Mariolina Bertini, il 25 “Il romanzo della scienza”, al matematico Alfio Quarteroni, l’1 agosto “Leggere ad alta voce”, alla regista Andrée Ruth Shammah, l’8 il giornalista Carlo Romeo (“Montaigne in mezzo al mare”), il 15 la designer tessile Lisa Corti (“Ogni sfumatura una storia”).
E nei ricordi del Maestro Fabio Vacchi. “L’Osteria del Sole!”, ricorda mentre regna tra i cuscini sul divano di casa propria, immerso in una natura vivissima con piante a profusione e poi un cane, un gatto, un pianoforte, e un tavolino basso pieno di libri impilati con rigore. E mentre un’ala di capelli gli piove sull’occhio sinistro – occhi rotondi e severi da assiolo, ma improvvisamente capaci di ridere e farsi ancora più rotondi – ecco la rievocazione inattesa circa il luogo da cui tutto cominciò.
Due premi di composizione tanto per debuttare (uno nel 1974 al Berkshire Music Center e l’altro nel 1976 nei Paesi Bassi, primo classificato). Due edizioni della Biennale che gli dedicano un ritratto. Un ciclo di lider su commissione di sua Maestà Claudio Abbado. L’inaugurazione dell’Auditorium Parco della Musica di Roma nel 2002. Fabio Vacchi è un curriculum incomprimibile e commissioni a diciotto carati – Riccardo Chailly e il Gewandhaus di Lipsia; il Maggio musicale fiorentino; i Berliner Philharmoniker e il Festival di Strasburgo; MiTo Settembre Musica. Può stupire che tutto cominci proprio dalle osterie, eppure, come in una sessione improvvisata, una partitura piena di grazia e di colore, Vacchi le riporta in vita in un gesto musicale di memoria e di voce. Una voce che, quasi, le canta.
“E’ all’Osteria del Sole che io ho scoperto il romanzo. Fu con L’uomo senza qualità. Ero ragazzo, avevo vent’anni. Era il 1969. Andavo lì nel tardo pomeriggio e ci venivano i vecchietti a bere il quartino, o più quartini, ma prima o poi al tavolo di fianco ti trovavi un regista sperimentale, un artista concettuale, un poeta da sottoscala, tutto un mondo di squattrinati e intellettuali. Non serviva conoscersi. Si parlava di arte, di cultura, di politica. Si voleva perfino cambiare il mondo. E io attaccavo bottone, origliavo, prendevo appunti. Tornavo sempre a casa con propositi di bibliografia”. Anche i discorsi da bar non sono più quelli di una volta? “Adesso è diventata un’osteria chic. E’ a cento metri da piazza Maggiore, un posto che esiste dal Millecinquecento. La mattina dopo, coi pochi soldi che avevo, andavo in libreria a spenderli tutti. Il romanzo di Robert Musil mi folgorò. Anche per la sua carica ironica, umoristica, una carica che hanno tutti i grandi artisti. Ce l’hanno perfino i grandi mistici. A non avere ironia, invece, erano… Ha presente i tipi, vero?”. Certo. Quelli che: macóóóme, non ti piacciono gli esperimenti linguistici di Sanguineti? “Nel brusio degli entusiasti dello sperimentalismo, io ero quello zitto”. Anni anche tremendi. Anni in cui, a un certo punto, Georges Perec pensò bene di scrivere un intero romanzo senza la lettera e. “Per dimostrare cosa? Non lo so. Ma anche da musicista, vede, io ho avuto vita molto dura, e per lo stesso motivo: rifiutavo le parole d’ordine dell’avanguardia ufficiale. Certo, avevo imparato tutte le tecniche anche dell’avanguardia, ma un conto è imparare una tecnica, un conto è aderire alla filosofia che sta dietro quella tecnica. Ho sempre rifiutato le parole d’ordine. E la parola d’ordine che imperava all’epoca era tabula rasa. ‘La nuova musica deve partire dalla tabula rasa! Cancellare tutto il passato!’ si diceva, anzi, si predicava. Ora, il passato sono le radici. E io, beninteso, non voglio certo mettermi a ripetere la musica dell’Ottocento o la musica del primo Novecento... Io scrivo la musica di oggi, e ambisco a fare la musica di domani. Addirittura quella di dopodomani, se ci arriverò. Ma se non conosco niente e rifiuto tutto in blocco, se non sono radicato nella cultura, se non capisco bene i meccanismi, come posso pensare di scrivere qualcosa che abbia un senso? Un albero, per crescere bene, deve avere delle radici ben piantate per terra. Questo, in sintesi, è anche il rapporto che ho con la letteratura”.
Patti chiari, osteria lunga. “Ci andavo sempre, ogni volta che potevo. Non che venissi da una casa in cui i libri non ci fossero, ma se uno mi avesse chiesto – che so – chi fosse Gombrich, non avrei saputo rispondere. E poi il romanzo, la scoperta più dirompente per uno come me, che veniva da letture saggistiche. Certo, a quattordici anni avevo letto qualche romanzo italiano. Ricordo con affetto certe letture salgariane, e Luigi Motta, un suo epigono – La tigre della Malesia, Addio Mompracem! Ma negli anni successivi, saggi. Solo saggi. Una marea di saggi. E quindi davo retta a tutti i Saggisti Corrucciati che sentenziavano che il romanzo fosse morto, zero, finito. Per me, invece, in quel 1969 all’Osteria del Sole, il romanzo era appena iniziato”.
Titoli, titoli. “Cent’anni di solitudine lo lessi in quindici ore filate. Ci trovai la vita. Quella vera. I saggi traboccavano di nobili astrazioni, ma solo astrazioni – importantissime, per carità. Ma nei romanzi c’erano carne, sangue… C’era anche la geometria, a frugare bene, per esempio in Borges. In ogni caso, tutto molto più affascinante. Poi i russi: ricordo ancora l’attacco di malinconia che mi colse dopo aver finito Anna Karenina. E adesso?, mi chiedevo. Come posso stare senza Anna Karenina?”. Per un attimo Vacchi sembra perdersi nel ricordo, in quel brodo giovane del lettore originario che si immerge in un libro con una freschezza che non avrà mai più, freschezza che si fonderà per sempre nel suo rapporto con le letture a venire. “E questo personaggio di Levin? Pensa di non reggere la fatica del lavoro fisico, poi si mette a falciare coi contadini e falcia allo stesso ritmo. Che intuizione vertiginosa”.
Poi toccò a Joseph Conrad. “Letto tutto. In particolare, amo Il ritorno. Un racconto ambientato in un interno borghese, l’unico. E’ di una crudeltà tremenda, di una violenza tutta introiettata. Dal racconto è tratto il film Gabrielle di Patrice Chéreau, per il quale ho composto la colonna sonora”.
(Vacchi ha firmato tre colonne sonore in vita sua, le altre due con Ermanno Olmi – una per Il mestiere della armi, premiata col David di Donatello, e l’altra per Centochiodi. “Non lo faccio spesso,” racconta).
Poi salpa dal divano. “Le faccio vedere il mio ultimo acquisto,” dice. E sparisce di là. Altre stanze, altre voci – quelle di due dei suoi tre figli. Quando torna in salotto fa cadere sul tavolino uno squisito laterizio pubblicato dal Saggiatore a cura di Tommaso Di Dio: più di 600 poesie, 200 autori, dal 1971 al 2021, cinquant’anni di poesia. “Sono anche un grande lettore di poesia”. Incalzato a menzionare, si ritrae. “Ne conosco tanti, di poeti. Non vorrei dimenticare qualcuno”. Poi, alla carica: “Facciamo così, le parlo di alcuni con cui ho lavorato. Come Aldo Nove. O Franco Marcoaldi. E Tonino Guerra, poeta straordinario. C’è questo suo poemetto, Il viaggio, lo conosce? Racconta la storia di due contadini ottantenni di Petrella Guidi. Un giorno lui dice a lei: ‘Ti porto al mare’. Del resto, sessant’anni prima, sposandosi, gliel’aveva promesso. Così si incamminano, per la Valmarecchia che porta fino a Rimini, seguendo sentieri e fiumi. In questa camminata di tre giorni e due notti, incontrano luoghi e persone che evocano i fatti della loro vita. E passano davanti a un lavatoio. A quel punto, mentre stavo scrivendo la musica per questo testo, chiamai Tonino. Volevo che dal nulla emergesse un coro di lavandaie. E gli chiesi: ‘Quando me lo scrivi?’. Lui, all’impronta: ‘Subito! Eccoli: Sporco lenzuolo di baci e sudori / torna pulito per i nuovi amori’”. Dal telefono alla scena – certe repentine trovate, la bellezza del travaso diretto.
Ma l’amore per i poeti non si ferma al lavatoio. “Nel 1996 ho messo in scena Dioniso germogliatore un melologo di Giuliano Scabia. E poi, siccome da ragazzo impazzivo per W. B. Yeats, al mio primo concerto per la Biennale ho messo insieme tre testi per brani e voce, uno suo, uno di Tonino Guerra e uno di Dino Campana. E accidenti, mi stavo dimenticando Shakespeare!”. salta su all’improvviso, mostrando di avere preso sul serio l’enumerazione degli amori lirici, come un Noè incaricato di salvare il meglio dell’umanità versificante. E non è finita: “Un altro grande poeta, mio vero rammarico perché è morto prima che io riuscissi a combinare un appuntamento, è Biagio Marin. Uno dei massimi italiani del dopoguerra. Ricorda quei versi incredibili? ‘Mar quieto / mar calmo / no vogie, no brame. / Respiro de salmo / fra dossi e fra lame’”. Li recita a occhi chiusi, perdendosi dentro sé, in quello spazio interiore che solo la poesia sa inventare. “Ancora una cosa su Tonino Guerra: divertentissimi certi insulti che si scambiava con Antonioni alla bocciofila sul Tevere”, rievoca ricordando la parentela acquisita col regista, la cui ex moglie sposò in seguito un cugino di Vacchi, pittore. “Si volevano molto bene, ma volavano ingiurie. Più da parte di Guerra, a dire il vero, che di Antonioni”. Il cinema come seconda letteratura? “Sì, ma a modo mio: non mi sono mai sentito in obbligo di amare Godard, un altro che a quell’epoca doveva piacere per forza. Ma io ero renitente, ormai l’ha capito”.
Un capitolo a parte, commosso e pieno d’amore, per raccontare il sodalizio con Amos Oz. “Mi innamorai di Storia d’amore e di tenebra, il suo capolavoro. E poi diventammo amici al punto che, quando Oz venne a Milano nel 2014 per l’unica tappa di presentazione del suo Giuda, volle che fossi io a presentarlo. Tra l’altro nel 2011 avevamo già lavorato a un suo romanzo, Lo stesso mare, ricavandone un libretto d’opera. Mi aveva colpito per la sua forma. Oz era una di quelle persone con un’aura, sa? Era calmo, tranquillo, pacato. Quando occorreva, pungente. Ma era soprattutto saggio, quasi un sapiente, e rigettava ogni forma di fanatismo. Per lavorare al libretto ci accomodammo a Bogliasco, dove stavo tenendo un corso estivo di composizione”. Ed ecco un racconto da far invidia. Un racconto che parla di quei momenti che solo la letteratura sa benedire. “Al mattino lavoravamo al mio corso con gli studenti e io, intanto, gli facevo sentire alcune mie musiche. Poi al pomeriggio parlavamo della drammaturgia dell’opera. E la sera, tutti a cena. Eravamo ospitati in un posto splendido, una casa affacciata sulla stradina che sale verso verso il paese, con un giardino sul retro. Io cucinavo e ci mettevamo a tavola: la mia famiglia, qualche studente, Pavel Vernikov, un grande violinista ucraino mio amico fraterno, e Jean-Jacques Nattiez, il musicologo. E ovviamente c’erano Amos e Nily, sua moglie, esperta di musica sefardita. Quando non avevo abbastanza pesce, facevo un gran risotto. Deve sapere che i miei risotti sono leggendari, parlando con modestia. Ma la cosa davvero meravigliosa è che a un certo punto della serata Nily montava un flautino, un flauto a becco, e si metteva a suonare una gran quantità di melodie sefardite. Diceva di conoscerne almeno quattromila. Ce n’erano alcune talmente belle che io, su un taccuino col pentagramma, me le sono annotate. Alcune sono finite nell’opera”.
Il rapporto con la letteratura contemporanea non si è mai interrotto. “Libertà di Franzen mi è piaciuto molto. Ho amato anche Elias Canetti, Il gioco degli occhi. Pensi che io ero amico di Marina Mahler, nipote del compositore e figlia di Anna Mahler. Quando le dissi: “Ah, sto leggendo questo libro bellissimo”, lei: “Io sono cresciuta sulle ginocchia di Canetti”. Canetti era innamorato di Anna Mahler: il gioco degli occhi era tra loro”.
Spazio per sperimentare? “Un romanzo molto diverso da ciò che mi colpisce di solito è stato L’uccello che girava le viti del mondo di Murakami. Un mondo magico che mi affascina”. Del resto, se una cosa sappiamo della realtà, è che non è reale. “Vero. Una volta ho fatto una foto a Ermanno Olmi mentre, dietro casa sua, parlava con uno scoiattolo. Lui parlava e lo scoiattolo era lì e lo fissava. Non è un’immagine magica, questa?”. Lista idiosincrasie, prego. “Virginia Woolf. E l’Ulisse di Joyce, una fatica bestia. Ma senza sensi di colpa: se un libro non mi piace, lo salto a piedi pari e passo ad altro”.
Beati i saltatori, perché di essi è il regno di tutti gli altri libri.