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Non solo aridi trattati. Vilfredo Pareto ebbe una felice vena da polemista

Giovanni Damele

Tra aristocrazia genovese e elitismo sociale. Il centenario della morte di un teorico acuto, dalla circolazione dell'élite all'ottimo paretiano, con un sostegno alla marcia su Roma che ancora pesa come stigma sulla sua biografia

"Il marchese Vilfredo Pareto”. Così lo chiamava Joseph Schumpeter, rimarcando quelle origini nobiliari nelle quali forse vedeva, lui così ossessionato da un’aristocrazia alla quale non apparteneva, l’origine dell’elitismo paretiano. Di quella teoria, cioè, che si sviluppa dalla premessa – condivisa con altri studiosi come Gaetano Mosca e Robert Michels – che ogni maggioranza è sempre organizzata da una minoranza, è sempre guidata da una élite, appunto. Schumpeter probabilmente ignorava a quale aristocrazia appartenesse Pareto e quanto fosse distante dal modello di quella mitteleuropea alla quale egli pensava quando scriveva frasi come “la borsa valori è un misero succedaneo del santo Graal”. Quella genovese era in verità un’aristocrazia che, quando Pareto nacque, aveva già sostituito da secoli il santo Graal con la borsa valori (anche se sotto altri nomi: la Maona di Chio, o la Casa delle Compere di San Giorgio). Scesi dalla Val Fontanabuona nella più suburbana Val Polcevera, i Pareto si erano nei secoli stabiliti a Genova accumulando sostanze alquanto ragguardevoli. Fu così che l’agognata “ascrizione” nel Libro d’Oro dell’oligarchia genovese, e il relativo accesso alle cariche pubbliche nella Repubblica dei genovesi, finì per rappresentare un “sostituto del santo Graal” per il trisavolo di Vilfredo, quel Lorenzo Pareto che se la comprò sborsando la niente affatto disprezzabile somma di 100.000 lire genovesi, riuscendo a spuntarla nel giro delle ascrizioni del 1727.

Queste scarne note genealogiche non servono, qui, solo come notizia dilettevole e curiosa. Suggeriscono qualcosa se non sull’uomo Pareto – del quale ricorre oggi il centenario della morte – almeno sulla sua sociologia. Perché se è giusto vedere nella dottrina della circolazione dell’élite l’apporto originale di Pareto all’elitismo classico, forse l’idea gli sarà sorta anche dal ricordo di quella non lontana ascrizione. Dalla coscienza, vale a dire, della peculiarità di una repubblica oligarchica che, al contrario della rivale veneta, non aveva mai “serrato” il Maggior Consiglio, ponendosi il problema di regolamentare un minimo di “circolazione”, per l’appunto, tra élite e non-élite.

Questo era, dunque, il background, anche culturale, del marchese Vilfredo. Un aristocratico alla genovese, nato a Parigi nel fatale 1848 da un esule mazziniano e da una madre borgognona. Marchese in senso proprio lo divenne, a esser precisi, solo nel 1898, cioè alla morte senza eredi del legittimo detentore del titolo: il “caro zio” Domenico, fratello maggiore del padre Raffaele. Fu allora che Vilfredo ereditò, col titolo, anche le considerevoli risorse che gli avrebbero consentito di vivere di rendita, dopo una lunga carriera prima da “manager” a Firenze e poi da professore di economia a Losanna. Il suo assistente Vittorio Racca raccontava che in quell’occasione, a un amico che gli chiedeva se davvero lo zio Domenico fosse “passato a miglior vita”, Pareto avrebbe risposto: “Ahimè, sì. E noi pure!”. Un aneddoto che condensa, allo stesso tempo, un esempio della retorica salace e un caso singolare (almeno a voler credere in una miglior vita ultraterrena) di “ottimo paretiano”: quello stato di equilibrio nel quale l’allocazione delle risorse non consente di migliorare la condizione di un soggetto senza peggiorare la condizione di un altro, alla cui definizione Pareto ha per sempre legato il suo nome.

Di questa retorica ve ne sono molti altri esempi. Non solo nel Pareto degli articoli e dei pamphlet, polemico e caustico talvolta oltre misura, ma persino in quello a un tempo arido e pletorico del Trattato di sociologia generale, la cui prosa di difficile digestione, puntellata da ostici neologismi, talvolta si interrompe per lasciar balenare frecciate sarcastiche di rara efficacia. E’ pur vero che negli scritti, privati e pubblici, traspare facilmente il Pareto “troppo acre” e “odiatore delle persone” al quale Gaetano Mosca imputava un eccesso di animosità, tale da offuscarne il rigore analitico (“non può considerare con perfetta obiettività”). Ma è anche vero che, della sua felice vena di polemista, Pareto infarciva anche gli scritti più anodini, come le recensioni dei libri. In una breve scheda de L’animo della folla di Pasquale Rossi, ad esempio, notava come l’autore annoverasse fra le “epidemie psichiche” il socialismo e lo spiritismo (riservando a entrambi un giudizio favorevole). E subito aggiungeva: “Non ci spiace di vedere riunite in una stessa classe le due cose ad opera di uno scrittore socialista. Egli ha ragione più di quanto non creda”.

Il giudizio di Pareto sul socialismo era, in ogni caso, assai più sfaccettato. Vi si opponeva nella teoria, ma ne riconosceva la forza politica. Della maggioranza dei “gonzi” che “abboccavano all’amo” dei ragionamenti “dei politicanti”, egli aveva sicuramente scarsissima opinione. Ma i socialisti, riconosceva, “sanno cosa vogliono e come lo vogliono; hanno un programma massimo e un programma minimo”. Lo stesso non poteva dire dei liberali, che gli apparivano, oltre tutto, sempre più abbagliati dall’“umanitarismo” che già aveva condannato l’aristocrazia francese alla ghigliottina.

Furono queste convinzioni a spingerlo all’ultimo atto politico della sua vita, che ancora pesa come uno stigma sulla sua biografia: l’approvazione esplicita della Marcia su Roma. Liberal-conservatore e allo stesso tempo lettore di Machiavelli, vedeva nel colpo di stato la necessaria cura radicale a un disordine che gli sembrava irredimibile, illudendosi poi che la situazione politica avrebbe potuto essere ricondotta entro binari para-costituzionali. Un abbaglio del quale non fece in tempo a pentirsi. Non aveva torto, perciò, Salvemini quando nel ’36 scrisse che “Pareto pregò Mussolini di calpestare il parlamento, ma insisteva che dovesse rispettare la libertà di stampa”, concludendone che “il mondo è tempestato di matti”. Era un “matto”, Pareto, dotato certamente di acume analitico. 

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